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giovedì 9 dicembre 2010

Sessualità

C’è un momento nella vita di ogni adolescente, in cui l’interesse, già relativo, per l’italiano, la geografia, l’aritmetica, la storia e le altre materie spicciole della scuola primaria, viene ulteriormente attenuato dall’incombere di una materia, che all’inizio si presenta come pura curiosità, ma in seguito diventa voglia prepotente di conoscenza, la più ampia possibile.
Il sesso: nelle sue forme fisiche, nei suoi sviluppi, nelle sue reazioni.
Per un adolescente fuori dalla cittadella di stazionamento di Pepè, la conoscenza di questa materia era relativamente facile, almeno nei primi rudimenti.
C’erano sempre un padre, una madre, uno zio, una parente, che riuscivano a trovare le parole per raccontare il miracolo del sesso.
Nonostante la frequentazione, era, per sentito dire negli anni successivi, comunque un discorso imbarazzante e non facile per chi prestava la consulenza.
Tra i maestri c’erano anche alcuni sacerdoti, molti anni dopo accantonati poiché dopo la teoria pare tendessero a proporre la pratica diretta sul campo.
All’interno della cittadella il sesso era qualcosa di innominabile, un termine sconosciuto, abominevole, tabù.
Pepè, dall’ospizio in poi, non aveva avuto maestri per quella disciplina: per i vecchietti, le suore degli inizi della sua vita (fin qui abbastanza giustificati), poi le altre che affiancavano la sua crescita, il prefetto, gli assistenti, era una materia inesistente.
Ed era così anche per i compagni.
Con questi c’era uno scambio di informazioni reciproche ma soggettive, motivo di scontri sui diversi punti di vista in merito.
Uno dei primi accenni alla ‘diversità’ tra maschi e femmine era venuto da Cristiano, un compagno che era andato da parenti in campagna.
Al rientro, in tutta segretezza, aveva confidato che le ‘femmine’ al posto del pesciolino avevano uno spacchetto simile a quello dei chicchi di grano.
Era stata una comunicazione importante, che però aveva aperto la strada a varie congetture.
Intanto, il fatto di avere parlato di ‘femmine’ faceva pensare che l’imbeccata gli fosse stata data riferita a qualche animale, femmina, della fattoria.
Femmina e ‘donna’ erano la stessa cosa?
Le donne da loro conosciute, a cominciare dalla Madonna, erano tutte sante: di esse si vedevano la faccia, le mani, talvolta i piedi, ma null’altro che facesse pensare a una loro possibile femminilità.
Dei maschietti si conosceva più o meno l’esterno, dai confronti fugacemente visivi dopo la doccia, ma erano solo una presa d’atto che tutti avevano quel pendicolo, che fino a prova contraria era destinato solo a fare i ‘bisogni piccoli’ (così era definita la pipì); inoltre il confronto si estendeva a qualche Bambin Gesù nudo in braccio a qualche Madonna, e ai putti che adornavano le ascese in cielo dei santi: tutti col loro bel pirillino, che confermavano l’esistenza dei maschietti anche in cielo.
Putti con ‘chicchi di grano’ non ne esistevano, almeno per rendersi conto di come fossero sistemati.
A Pepè era capitato di vedere una donna completamente nuda, ma in una situazione che non ne consentiva un ricordo razionale.
Era successo in colonia; c’era il mare molto agitato, e in lontananza, vicino a un tratto roccioso della spiaggia, aveva notato uno strano movimento di persone, visibilmente agitate.
Era corso anche lui, pensando alla pesca di qualche pesce bizzarro o fuori misura.
Invece si trattava di una donna che, poveretta, era scivolata in mare; i marosi l’avevano sbattuta più volte contro gli scogli, forse uccidendola da subito.
Però i soccorritori, nel tentativo di salvarla, le avevano tolto tutti gli indumenti, praticando tentativi di respirazione artificiale.
Il corpo era completamente viola dal freddo, con chiazze più pronunciate qua e là, dovute al batti e ribatti contro le rocce.
Prima di distogliere lo sguardo inorridito aveva fatto in tempo a vederne il seno e un triangolo di peli scuri in mezzo alle gambe; nient’altro.
E comunque all’epoca di quel fatto non era ancora entrato nella fase di studio di quella materia, per cui il ricordo si fermava al rimpianto per quella poveretta.
Già il riuscire a sapere come nascevano i bambini era un’impresa quasi impossibile.
Per esempio: in apertura di un film c’era stato un documentario di attualità, muto e in bianco e nero, forse della Settimana Incom o dell’Istituto Luce.
Mostrava una lunga vetrata, con diverse persone che guardavano all’interno di una grande, luminosa stanza; al di là della vetrata si vedevano delle ragazze, vestite di bianco, con la crestina con velo delle infermiere di allora, che ‘maneggiavano’ ciascuna un neonato, tra fumi di talco e fasce.
Le persone al di qua della vetrata puntavano un dito, or qua or là, visibilmente commentando.
Tanto era bastato per pensare che, da qualche parte, si ‘facevano’ i bambini e che le persone di qua dal vetro sceglievano, tra quelli in esposizione, il più adeguato ai loro desideri.
Le discussioni in merito a questa interpretazione avvenivano tra chi era a favore di questa tesi e chi la avversava.
Ma chi la avversava non aveva alternative da proporre, per cui era come il tifo per Coppi o Bartali, allora in auge: ciascuno teneva la propria convinzione.
Per mandare ancora più in confusione ci si era messa anche l’Ave Maria.
Il “fructus ventris tui” inserito in quella preghiera era tradotto nella versione italiana “frutto del seno tuo”; al di là del fatto che se anche fosse stato, giustamente, tradotto “frutto del ventre tuo” non avrebbe chiarito il mistero della nascita; per i ragazzi, che non sapevano di latino, ‘ventre’ e ‘seno’ apparivano come un tutt’uno, e il ‘seno’ era ritenuto una esigenza di traduzione.
Con un dolore dalle parti dell’ombelico, a nessuno sarebbe venuto in mente di dire ‘ho mal di ventre’: era per tutti un ‘mal di pancia’, dalla cintola in giù.
Questa nebbia sessuale era diventata ossessiva.
Una notte Pepè si era svegliato di soprassalto, ritenendo di avere bagnato il letto.
Forse aveva sognato di essere andato in bagno e di averla fatta in sogno nel gabinetto.
Col terrore di venire inserito nei bagnaletto (con la conseguente esposizione delle mutande), si era affrettato a tamponare con il lenzuolo sia le mutande bagnate che il lenzuolo di sotto inumidito.
Al mattino aveva fatto di corsa il letto, con la speranza che in giornata si sarebbe asciugato; le mutande, invece, si sarebbero asciugate addosso.
Non gli era mai capitato, neanche da piccolo, e questa novità lo aveva stordito per tutto il giorno.
Coricandosi, alla sera, aveva allungato la mano verso il luogo della fuoruscita del liquido: era asciutto, meno male, ma il lenzuolo, lì, sembrava diventato di carta, così come le mutande sul davanti.
Solo molto tempo dopo avrebbe scoperto che esiste una specie di reazione fisiologica detta ‘polluzione’, di solito notturna.
Negli scambi di informazioni era emerso che anche ad altri compagni era successa la stessa avventura.
Da uno più esperto era anche venuta l’indicazione che quella ‘polluzione’ poteva essere anche diurna, o comunque sollecitata.
Poiché qualunque cosa toccasse il sesso era ritenuta peccato, quel sollecito era divenuto oggetto di confessione.
Pepè non ricorda con quale espressione descriveva quella manipolazione; forse con “mi sono toccato”, e tanto al sacerdote bastava per capire di cosa si parlava.
Ma non doveva essere catalogato come ‘peccato grave’, visto che la pena consisteva nei soliti tre Pater Ave Gloria, la stessa di prima di questo nuovo atto peccaminoso.
Il resto della scoperta del mondo del sesso era poi venuto, lentamente, nel tempo.
Fino all’apprezzamento della ‘femminilità’ di alcune giovani suore, veramente carine.
Apprezzamenti purtroppo sempre caduti nel vuoto…
Lo stato di segregazione forse aveva contribuito ad evidenziare una spiccata arretratezza nella scoperta di una materia così importante nella vita; certamente neanche lontanamente paragonabile alla situazione odierna.
Come in moltissime altre cose, con lo scorrere degli anni, si era passati dal ‘nulla’ al ‘troppo’.
Le vie di mezzo erano scomparse, come le stagioni.

lunedì 22 novembre 2010

Crescere, piano piano...

La scuola era finita.
La quinta elementare era allora il primo diploma necessario per entrare nel mondo del lavoro.
L’esame era stato seguito da un insegnante esterno, forse mandato dal Provveditorato per sancire la regolarità delle prove.
Probabilmente questi le aveva seguite con un occhio di riguardo alla situazione dei ragazzi che doveva esaminare.
Infatti, né in quell’anno appena finito né in quelli precedenti, c’erano stati bocciati o rimandati.
Al termine del ciclo scolastico obbligatorio, le strade possibili erano solo due.
Le famiglie, quelle vere, venivano a ritirare i ragazzi, indirizzandoli poi dove le possibilità consentivano: chi poteva faceva proseguire gli studi altrove, almeno fino alla licenza media; gli altri venivano parcheggiati presso qualche laboratorio artigianale, per imparare un mestiere.
All’interno ci sarebbe stata la possibilità di studiare almeno fino al livello successivo, a condizione di avere la ‘vocazione’ e proseguire gli studi presso un piccolo seminario adiacente: infatti era un primo approccio per essere poi avviati a un vero seminario, per tentare di diventare sacerdoti.
Nonostante gli anni pieni zeppi di messe, funzioni in chiesa, processioni, vespri, preghiere, la ‘vocazione’ non era arrivata.
Anzi, forse proprio a causa di questi eccessi, non si era proprio sentito ‘vocato’.
D’altra parte, nessuno si era presentato a ‘reclamarlo’; nessuno, neanche con una cartolina, aveva fatto mai pensare che qualcuno all'esterno fosse interessato alla sua uscita da quel mondo.
Così era rimasto lì, come parcheggiato, in attesa degli eventi.
Forse il prefetto aveva accarezzato l’idea, in assenza della vocazione sacerdotale, di indirizzarlo a un servizio laicale, come fratello.
Minuscolo come corporatura, troppo giovane come età, avrebbe dovuto crescere ancora un po’ nell’una e nell’altra, per poter essere immesso nella famiglia che provvedeva alla preparazione dei fratelli per il servizio sul campo.
Nell’attesa era diventato una specie di segretario del prefetto: commissioni in giro per la cittadella, piccoli acquisti in uno spaccio interno, più che altro di frutta, assistenza a piccole riparazioni…
Cura della piccola farmacia interna: medicine, bende, garze, cerotti, si ritiravano in una vera farmacia, situata in locali sotto la chiesa grande.
Non aveva mai saputo perché tra i medicinali fosse inclusa una bottiglietta di marsala all’uovo.
Veramente non se lo era neppure chiesto: era talmente buona che, sorso dopo sorso, finiva molto presto; con l’alcool denaturato, destinato alle sbucciature da pallone, era la ‘medicina’ che richiedeva gli adeguamenti più frequenti.
In quel periodo aveva avuto modo di girare un po’ dappertutto, imparando l’ubicazione dei vari servizi che tenevano in vita un complesso così vasto.
Così l’enorme cucina centrale, con grandissimi pentoloni e la ruota laterale per poterli manovrare, e un via vai continuo delle suore addette, per lui non aveva segreti.
La lavanderia, anche qui con grandi macchine sempre in funzione per lavare migliaia e migliaia di lenzuola e capi di vestiario, con suore specifiche dedite a quel compito.
E la panetteria: anche questa a sfornare pane in continuazione; era tutta automatizzata, e le suore addette, durante il giorno, erano in numero minore che nelle altre attività. In un lungo bancone rotante, insaccavano pagnotte dentro sacchi di corda, a seconda delle necessità e delle richieste pervenute dai vari settori del complesso.
C’era poi un reparto di manutenzione, curato da persone esterne, operai salariati: falegnami, idraulici, elettricisti, muratori…
In caso di necessità di intervento, dalle famiglie o dalle infermerie partiva la richiesta di aiuto, e i problemi erano risolti in tempi accettabili.
Il suo ‘servire messa’ lo aveva portato a visitare tutti i locali dotati di questo servizio religioso.
Se qualche ragazzo non si sentiva bene, magari fingendo per ritardare un po’ la sveglia, Pepè lo sostituiva senza bisogno di dare indicazioni: bastava dire il santo o la santa protettori di quel locale, e ci andava ormai a occhi chiusi.
Il prefetto, in quel periodo, aveva acquistato (o gli avevano regalato) un proiettore portatile per trasmettere film.
Si trattava di una Micron XXVI, 8 o 16 millimetri, questi non li ricordava bene.
I film si prendevano a nolo presso alcuni distributori in città, oppure da una parrocchia vicina, con una sala cinematografica.
Il prelievo e il riporto delle pellicole erano compito di Pepè.
Erano dentro speciali valigette quadrate, che, in mano a uno scriciolo, attiravano sovente l’attenzione dei passanti, e talvolta dei carabinieri, che ogni tanto lo fermavano per sapere cosa contenesse quel bagaglio.
Saputa la provenienza e la destinazione non indagavano oltre e lo facevano proseguire nella missione.
Un po’ per volta, Pepè era uscito da solo dalla cittadina, era salito per la prima volta su un tram, aveva preso dimestichezza con l’attraversamento delle strade e sulla funzione dei semafori.
Tutte cose nuove, insieme alle vetrine dei negozi, contro cui schiacciava il naso per meglio curiosare all’interno.
Grandi novità da mettere in un ipotetico zaino delle sue esperienze.
Con un carrettino a due ruote, portava questo proiettore e gli accessori dovunque fosse stata concordata una proiezione (in altre famiglie, talvolta anche nelle infermerie) che non avevano la possibilità di accedere al salone descritto nei capitoli precedenti.
Poco per volta aveva imparato a montare da solo tutto l'apparato, farne i collegamenti e perfino a montare le pellicole nei loro percorsi dentati: la partenza della proiezione la dava il prefetto quando era tutto pronto.
A forza di vederlo così autonomo, la richiesta di andare a presentare i film, in determinate occasioni e con altrettanto determinati film, sovente passava da Pepè, per la maggiore possibilità di vederlo in giro per commissioni.
Richieste che trasmetteva al prefetto.
Ovviamente da questi giri, non rientrava mai a mani vuote. Addirittura ogni tanto raccoglieva anche qualche lira.
Sovente gironzolava per fatti suoi, la curiosità lo portava anche in zone poco frequentate; in particolare una specie di discarica di vecchie radio, strani attrezzi ormai in disuso, materiale elettrico semidistrutto: gli piaceva rovistare, alla ricerca di qualunque oggetto, o parte di oggetto, che attirasse la sua attenzione.
C’erano un paio di persone addette alla selezione di quel materiale, e a loro chiedeva spiegazioni su tutto.
Forse stupiti dalla curiosità di un ragazzino verso questi materiali, non rifiutavano di erudirlo e passargli i pezzi che più lo attiravano.
Così, per esempio, era riuscito a costruire una radio galena, con tanto di antennina, manopola di ricerca delle poche stazioni disponibili e un minuscolo altoparlante.
La ascoltava la sera, completamente sotto le coperte; all’esterno si sentiva una specie di ronzio, e là sotto bisognava continuamente cercare la stazione, che andava e veniva, regolando di volta in volta il volume.
Ascoltava, fino a che il sonno vinceva e l’ascolto continuava nei sogni.
Tutto quanto apprendeva lo metteva nel famoso zainetto delle esperienze.
Però come fosse riuscito a fare quella radiolina, è rimasto un mistero, disperso dal vento degli anni.

lunedì 25 ottobre 2010

Margherite con le spine

Di solito sono le rose che s’accompagnano alle spine.
Ma di rose, Pepè, nel suo cammino non ne aveva trovate.
Qualche margherita, forse, ma cercandola per bene, non con la classica lanterna, bensì con una buona lente d’ingrandimento.
Le spine, invece, erano state abbondanti; e perfino quelle poche margherite riuscivano ad averle.
Forse la gestione di ottanta-novanta ragazzi richiedeva una buona dose di capacità organizzative, sicuramente disciplinari.
I pochi anni trascorsi dal termine di un conflitto che aveva dilaniato il mondo, e di cui i ragazzi sentivano solo i rimbalzi, attutiti da una forma di pudore spontaneo da chi quegli anni aveva vissuto, avevano lasciato tracce, difficili da cancellare in così poco tempo.
Una di queste tracce era l’ordine a tutti i costi.
La disciplina, ferrea come si usava dire, era uno di questi costi, un retaggio di quel recente passato, ed era applicata con costante attenzione.
In classe, l’essere relegati dietro la lavagna perché sorpresi a copiare o chiacchierare, era punizione quotidiana.
E, di solito, terminava con la fine delle lezioni.
Talvolta, in caso di male risposte, il ‘delitto’ finiva al prefetto.
E da lui non arrivavano solo sgridate; purtroppo erano botte, belle e buone.
Nel suo ufficio aveva una bacchetta quadrata, un centimetro di lato, e la usava sul dorso delle mani, che dovevano essere ben stese, per accogliere meglio la battuta.
Il ritiro, automatico nel tentativo di salvataggio, comportava il raddoppio della punizione.
Chi usciva da quelle ‘lezioni’, lo faceva con gli occhi gonfi di pianto e le mani paonazze, talvolta sprizzanti sangue.
In genere, però, le punizioni consistevano in qualche schiaffone o un calcio nel sedere.
Farsi pescare a tavola a parlare, voleva dire rischiare di finire con la faccia nel piatto, per uno schiaffo improvviso e inatteso.
Durante le ricreazioni, i litigi erano frequenti, o per un intervento pesante giocando al pallone o per un’offesa verbale non accettata.
In quei casi interveniva l’assistente, che prima divideva i litiganti a suon di ceffoni, poi cercava di sapere ‘chi aveva cominciato’: non che avesse grande importanza, poiché alla fine dava un supplemento a entrambi, destinandoli agli estremi del cortile per evitare recidive.
Questo tipo di castigo lasciava un po’ il tempo che trovava, poiché calci nelle gambe, gomitate, qualche pugno nelle fasi di gioco, rendevano quasi coriacei alle ulteriori botte.
Gli assistenti, di solito, erano due: un ‘fratello’ laico e un chierico, che studiava nel vicino seminario.
Muniti entrambi di un fischietto, per le chiamate collegiali.
Questo fischietto era legato a una specie di catenella, forse per limitare i rischi di caduta a terra o di perdita.
Il chierico aveva una sua etica: mai mettere le mani addosso a un ragazzo.
Quindi, nei suoi interventi, affidava alla catenella il compito di risolvere le situazioni.
La faceva roteare facendola andare a battere, se possibile sulle mani, ma in casi estremi anche sul collo o sulle gambe, che i calzoni corti lasciavano scoperte.
Pepè aveva parlato in precedenza dei ‘bagnaletto’, e forse aveva dato l’impressione, volutamente, che il fatto finisse lì.
Non era così: chi nella notte, per disattenzione o per debolezza, aveva bagnato il letto, sapeva già quale era la sua punizione.
Alle ricreazioni, dopo pranzo e dopo cena, il ‘colpevole’ si doveva presentare con una specie di fazzoletto in testa.
Quel fazzoletto erano le mutande, bagnate con il letto la notte precedente.
Al pomeriggio erano già asciutte, o quasi; in teoria avrebbe dovuto essere una punizione psicologica, per insegnare al colpevole che bagnare il letto non era cosa buona.
Ma anche questa, alla fine, diventava una punizione simbolica, perché il punito entrava tranquillamente nei giochi con i compagni, e la sua ‘bandana’ non era oggetto di repulsione, tanto meno di disprezzo.
La sera, inoltre, quando tutti erano andati a letto, doveva aspettare ai piedi del letto il segnale per poter andare a dormire.
Che talvolta arrivava molto tardi, o perché il prefetto rientrava a tarda notte o perché se n’era dimenticato.
Se lo scopo era di umiliare con la speranza di ‘redimere’, questo falliva regolarmente, sia dal lato psicologico che da quello pratico.
Chi aveva questa debolezza non guariva con questo tipo di cura.
C’erano poi le punizioni prettamente psicologiche.
Ogni tanto c’era la proiezione di diapositive, solitamente a carattere religioso, e il punito doveva stare con la schiena verso lo schermo, ascoltando le spiegazioni dei fotogrammi senza poterli vedere.
Ma queste erano talmente ripetitive, che il non vederle lasciava assolutamente indifferenti.
Diverso il discorso per i film, sempre con la schiena rivolta allo schermo: se erano racconti religiosi, la perdita era relativa. Talvolta, però erano di avventura, e allora un po’ di dispiacere ci scappava.
Insomma, non era inferno, tanto meno paradiso.
Neppure limbo.
Era… così.

giovedì 14 ottobre 2010

Feste comandate

Le domeniche e le feste comandate, nei pomeriggi, dopo un’adeguata istruzione, il compito di Pepè era fare il telefonista.
All’entrata della cittadella c’era un centralino, presidiato da una suora, che verificava le entrate dei visitatori, e provvedeva a chiamare il numero della famiglia richiesto per invitare gli interessati in parlatorio.
Che era sistemato in una grande stanza, munita di sedie e tavoli, sufficienti per un buon numero di visitatori.
Questa entrata, questo centralino e questo parlatorio erano destinati ai reparti maschili.
Per quelli femminili, tutto l’apparato era altrove.
L’apparecchio telefonico, nella famiglia di Pepè, era piazzato in un angolo del dormitorio.
Nero, attaccato al muro, naturalmente a quella che si dice ‘altezza d’uomo’.
Pepè, oltre a non essere ancora un uomo, anche ad altezza lasciava a desiderare.
Sotto l’apparecchio, un tavolinetto e una sedia.
Pepè era stato preferito ad altri per quel compito, perché c’era la fondata certezza che nessuno lo avrebbe mai cercato.
Era diventato un posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ad ogni squillo doveva alzarsi per rispondere, perché da seduto non arrivava allo stacco della cornetta.
In seguito aveva attaccato alla forcella uno spago, al cui termine aveva legato un piccolo peso, una pietra; con la cornetta appoggiata sul tavolino, era sufficiente sollevare il peso, e rispondere direttamente.
Insieme a lui c’era un compagno, con il compito di messaggero: ad ogni chiamata andava a scuola o nel cortile per avvisare della visita.
Il tempo lo passavano leggendo o facendo le corse lungo i letti. Il dormitorio era abbastanza lungo da consentire belle galoppate.


Nelle feste ‘grandi’ le processioni erano d’obbligo.
Se capitavano nel periodo invernale, non era necessario vestirsi a festa: un tabarro nero copriva ampiamente i vestiti di tutti i giorni.
Ad alcuni arrivavano a mezza gamba; quello di Pepè copriva quasi fino alle caviglie.
Invece degli zoccoli si mettevano le scarpe e la trasformazione era completata.
Sempre d’inverno, con quelle mantelle si divertivano a correre nel cortile, facendole aprire a vela, come i cavalieri o i vampiri visti in qualche film.
Oppure facendo lunghe scivolate su strisce di cortile, opportunamente allagate la sera, per trovarle al mattino completamente ghiacciate.
Quando le processioni cadevano in periodi più caldi, avevano una giachetta blu, con il bavero e il colletto coperti da una camicia bianca, aperta sul collo.
Veramente non era una camicia completa: si trattava di una specie di pettorina, formata da un largo colletto collegato a un rettangolo, tenuto unito da un paio di bottoncini.
Sopra la giacchetta, dava l’impressione di una candida camicia, che offriva una parvenza di eleganza.
Quando le processioni si svolgevano all’esterno della cittadella, pareva di sentire i commenti degli spettatori ai lati della strada: commenti che, dietro l’ammirazione, facevano intuire il concetto che perfino degli orfani, vestiti a festa diventavano personcine normali.

Il giovedì pomeriggio, tempo permettendo, era dedicato a una passeggiata all’esterno.
I percorsi, nel lungo periodo di soggiorno, erano ormai diventati abituali.
Se, uscendo, si andava verso sinistra, il fiume era il traguardo della gita.
Se si andava verso destra, cammina cammina, si arrivava a un cumulo di macerie, resti dei bombardamenti della guerra conclusa da pochi anni. 
E su quei resti giocavano; per fortuna senza mai avere incocciato residuati bellici, che avrebbero potuto trasformare la gita in una tragedia.
Di fronte, sicuramente era in programma la visita a qualche basilica, o comunque un posto religioso, di cui per l’ennesima volta avrebbero ascoltato la storia e i miracoli.
Così tra messe, funzioni religiose di ogni tipo, preghiere, scuola, ricreazioni, qualche film, quegli anni stavano passando, tutti uguali, quasi monotoni.

Una monotonia interrotta due volte dalla morte.

Si chiamava Franco, il cognome non lo ricordava; un giorno era stato ricoverato all’ospedale, e per un lungo periodo non lo avevano più visto, tanto da pensare che avesse trovato una famiglia vera che lo avesse adottato.
Poi era ricomparso, era tornato a scuola, in famiglia: aveva un grande fazzoletto legato intorno alla testa, a coprire i capelli.
Che non c’erano più.
Si era fermato poco tempo, poi era tornato in ospedale e da lì non era più rientrato.

Parecchio dopo era toccato a Luigi, il cognome lo ricordava bene, ma il citarlo non aggiungerebbe nulla al suo ricordo: aveva delle piaghe ai piedi, ed era in cura per queste.
Sembrava stesse migliorando.
Invece dopo l’ennesimo ricovero, una mattina aveva chiuso il libro della sua vita e se n’era andato, anche lui.

giovedì 7 ottobre 2010

Medici e pazienti

Da ragazzi, si sa, i malanni, di solito, sono per natura quasi inevitabili.
Pepè non ricordava di avere “fatto” quelli più noti: orecchioni, scarlattina, varicella, morbillo, e altri eventualmente dimenticati.
Il fatto di ritenere di non essere passato sotto quelle forche caudine, era dovuto al preciso ricordo dei suoi contatti col mondo della medicina.
Già i camici, allora bianchi, dei barbieri lo mettevano in agitazione, figuriamoci quelli medici…
Il primo incontro con questi lo aveva avuto in occasione della vaccinazione anti-vaiolo.
A lui e ai compagni avevano scoperto il braccio sinistro e, dopo averlo disinfettato, avevano grattato con una specie di pennino l’esterno del muscolo.
Sulla ferita così provocata, probabilmente, avevano inserito il siero.
Il ‘probabilmente’ era dovuto al fatto che con gli occhi lacrimanti e volti verso la destra, per evitare di vedere lo scempio in atto, non poteva dire con certezza che qualcosa fosse stato immesso.
Garzina, cerotto e, passato il dolore immediato, giorni di prurito sulla ferita, col divieto assoluto di grattare, pena la ripetizione della vaccinazione.
Caduta la crosta formatasi, e asciugata la ferita, era rimasta la cicatrice.
Indelebile, come quella provocata anni prima dal braciere.


L’altro intervento medico era stato l’asportazione delle tonsille.
Non ricorda cosa avesse provocato la decisione, un valido motivo ci sarà stato, ma non ne era a conoscenza.
Ricorda invece perfettamente l’andamento dell’operazione.
Il giorno del ‘sacrificio’, in sala operatoria il chirurgo aveva preso atto che Pepè era troppo minuscolo per riuscire a fermarlo sulla poltrona.
Quindi il fratello laico, Lorenzo, si era seduto prendendolo in braccio, incrociandogli le braccia in modo da evitare eventuali, benché improbabili, gesti inconsulti.
Con un apribocca, una mascherina, una spruzzatina di anestetico gassoso, era andato nel mondo dei sogni.
Senza averlo sentito, essendo sicuramente stato addormentato, ancora per anni gli era frullato per la testa un sinistro “clic- clac” nel ricordo di quell’operazione.
Per il primo giorno dopo il taglio, solo ghiaccio e gelati.
Non fosse stato per il dolore del passaggio nella gola, sarebbe stata una festa bellissima.
Nei giorni successivi, le zuppe di latte e biscotti sarebbero state un’altra grande festa, non fosse che ne aveva mangiate fino alla nausea, fino ad averle in uggia per molti degli anni successivi.


C’era stata un’epidemia di difterite.
Tamponi ficcati in gola a tutti, per cercare i positivi all’esame.
Pepè e altri cinque erano risultati “portatori sani”; per loro si era reso necessario il ricovero in quarantena.
In una infermeria era stato trovato un locale, con un piccolo bagno, e vi erano stati sistemati sei lettini.
Divieto assoluto di uscita ed entrata nella stanza.
Isolamento assoluto.
Iniezione ogni giorno, tampone intermedio di controllo, e tampone finale per fine malattia.
Dalla ‘famiglia’ avevano mandato libri e quaderni, per non restare troppo indietro con le lezioni.
Qualche rivista di fumetti e le “parole incrociate”.
Queste ultime un totale fallimento: aveva ritenuto sufficiente riempire le caselle con parole sensate, solo che le verticali non coincidevano mai con le orizzontali.
Feroci battaglie con i cuscini e piccole liti (per esempio, quando qualcuno stava troppo in bagno, e i ‘bisogni’ diventavano impellenti), aiutavano il passar del tempo.
Per un po’, avevano scoperto un nuovo passatempo, che si preannunciava divertente, con qualche rischio.
Divisa da una grande porta a vetri, sempre chiusa, c’era l’infermeria delle ragazzine; anche loro in isolamento per acciacchi infettivi.
Dopo i primi giorni di segregazione totale, le maglie della sorveglianza, soprattutto la sera, si allentavano un pochino. Le infermiere andavano a cenare o a pregare altrove, e questo consentiva brevi scorribande fuori dalla gabbia.
Scoperta la presenza delle femminucce al di là della porta a vetri, la curiosità di vederle, magari conoscerle, era stata troppo forte.
Ostacolata dal fatto che loro non ne volevano proprio sapere.
Appena vedevano gli incursori avvicinarsi, scappavano gridando l’allarme alla loro infermiera, che arrivava di corsa, imbufalita.
I pionieri erano più veloci, per cui al suo arrivo la cerbera, non trovando nessuno, probabilmente dava delle ‘visionarie’ alle sue pulcine e tornava alle sue faccende.
Le quali pulcine, pur malate, avevano una malignità precoce ìnsita, poiché avevano pianificato un contrattacco degno di migliore causa.
Si mettevano bene in vista, tre o quattro, invitanti all’approccio, consistente più che altro in boccacce reciproche.
Intenti a questo modo di ‘tubare’, ai fantaccini sfuggiva la sparizione, silenziosa, di una delle paperelle, che tornava accompagnata dall’infermiera.
Tuoni, fulmini, saette, sgridate, minacce di segnalazione del ‘delitto’ al prefetto… un finimondo, solo per quattro boccacce.
Che poi, i sei carcerati avevano in comune, nei confronti delle femminucce, la certezza che solo i colori dividessero i maschi dalle femmine: celeste i maschietti, rosa le femminucce.
La scoperta dell’altra, deliziosa, metà del cielo, avrebbe avuto inizio nel tempo, chi più prima chi più dopo, non più in branco, ma con percezioni personali e singole.
A parte la segregazione e le iniezioni, quel periodo aveva evitato ai sei ‘carcerati’ sia le levatacce all’alba che le messe ogni mattina.
Nell’insieme, non un cattivo ricordo…


Un altro indimenticabile contatto con i dottori era avvenuto per una polmonite.
Una domenica sera erano andati al salone cinematografico, per la visione di un film.
Era inverno, faceva un freddo davvero invernale; il salone non aveva riscaldamento. C’era una grande stufa, il cui tubo di scarico dei fumi attraversava tutto il salone, dando una parvenza di calore, più intuitiva che reale.
I ragazzi erano tutti ben coperti da maglioni e cappotti, ma il freddolino, stando fermi, si faceva ugualmente sentire.
A Pepè era venuta la brillante idea di andarsi a mettere nei pressi della stufa.
Lì c’era un gran bel calduccio; tanto calduccio da invogliarlo a togliere il cappotto.
Niente di male, sennonché alla fine del primo tempo, per rinfrescarsi un po’ dal troppo caldo, non avesse avuto l’altrettanto brillante idea di uscire a prendere una boccata d’aria fresca.
Anzi, freddissima.
Ovviamente senza cappotto.
Nella nottata, forti dolori a ogni respiro e la febbre altissima, avevano fatto intervenire i medici dell’ospedale.
Era venuto il primario, accompagnato dal suo vice.
Erano piuttosto buffi: il primario alto e grasso, il suo vice alto e segaligno.
Facevano subito pensare ai filmetti di Gianni e Pinotto…
Per i ragazzi, a parte la camicia ed eventuale maglione, non erano previste magliette o canottiere.
In occasione di visite mediche, forse per evitare rimbrotti da parte dei dottori, veniva fatta indossare una maglietta “di sotto”.
Un fazzoletto immacolato sulla schiena, per evitare il freddo dello stetoscopio, e diagnosi immediata: polmonite.
Ricovero, iniezioni a volontà, compresse…
Anche qui il vantaggio di saltare le messe e poter dormire di più la mattina.
E niente libri e quaderni.
Gli è rimasto in mente un medicinale, forse un ricostituente, un cucchiaio al giorno.
L’odore era di anice, uno dei pochi liquori che nel corso dell’esistenza non ha mai più amato, neanche travestito da Pernod.

lunedì 27 settembre 2010

Scampoli

Cassettini della memoria che si aprono, poi si richiudono per aprirne altri.

Natale.
Una famiglia allargata, senza padri né madri, formata solo da tanti fratelli.
Nel ricreatorio era stato fatto un grande presepe, appoggiato all’angolo in fondo a destra.
Cavalletti a sostegno di tavoloni, ricoperti di muschio e sassolini.
Le montagne e la grotta fatti con carta da pacchi stropicciata, e poi dipinte di verde e marrone.
Le stradine segnate dal gesso, scendevano dai monti, per finire tutte all’ingresso della grotta.
Nella grotta il bue, l’asinello e la Famiglia.
Dai monti e sul prato davanti alla grotta tante statuine, pecorelle, omini che lavoravano; un ruscello con l’acqua vera che faceva girare la ruota di un mulino.
Tutte cose che Pepé non aveva mai visto; appena poteva, si staccava dal giocare, per guardare, per sognare…
Entrava anche lui nel presepe, entrando ogni volta in personaggi diversi.
La notte di Natale, al ritorno dalla messa di mezzanotte, avevano trovato una bevanda calda, forse una specie di thé, prima di andare a letto.
Sotto il cuscino avevano trovato un sacchettino: il regalo di Natale.
Un paio di mandarini, un po’ di caramelle, qualche cioccolatino, un medaglione di zucchero con stampato Gesù bambino, un pacchettino di biscotti.
Nulla per chi aveva tutto, tutto per chi aveva niente.
Pepè aveva aperto il sacchetto, sparpagliando tutto sul lenzuolo; era tardi e la voglia di divorare tutto subito era stata cancellata dal sonno.
Aveva raggruppato il suo tesoro sotto il cuscino, tenendo tutto unito con la mano, forse col timore che potesse scomparire, e si era addormentato.
Al mattino c’era ancora tutto; ma i cioccolatini, col calore della mano e il caldo del cuscino, si erano sciolti, impiastricciando cuscino e lenzuolo.
Si era prima leccata per bene la mano; lo stesso aveva fatto per recuperare il più possibile la cioccolata dal lenzuolo e dalla federa.
Le macchie erano rimaste, ma non lo avevano preoccupato.
(Moltissimi anni dopo questa prima notte natalizia, aveva immaginato l’espressione di suor Emilia, la suora addetta alle biancherie, nel vedere quelle strane macchie tra lenzuolo e cuscino; la immaginava chiedersi cosa e come le avesse potute provocare; la immaginava mentre annusava per conferma e farsi poi scappare un sorriso, che, arcigna com’era, quasi mai elargiva).

Le veglianti.
Tra i tanti ragazzi, alcuni, per difetto o per pigrizia, di notte bagnavano il letto.
Per evitare, o quantomeno limitare, questa disavventura, c’erano le “suore veglianti”.
Erano suore anziane, non più in grado di reggere i ritmi di lavoro che le necessità dei vari reparti imponevano.
Alla sera si recavano ove si riteneva necessaria la presenza di qualcuno che ‘vegliasse’ sul sonno dei ragazzi o degli ammalati.
I “bagna letto”, così erano chiamati, erano contraddistinti da una fettuccia annodata ai piedi del letto.
A orari più o meno precisi, la vegliante faceva il giro della camerata, svegliando i ragazzi contraddistinti dalla fettuccia.
Talvolta gli orari della sveglia non coincidevano con la necessità di qualche ragazzo: o poco prima o poco dopo il letto si bagnava.
Queste suore avevano una stanzetta con un tavolino, una lampada da tavolo per leggere e un lettino per riposare.
E un fornelletto elettrico.
Tutte le sere, le suore del giorno facevano trovare una caraffetta di latte, che la vegliante di turno si scaldava durante la notte, forse per combattere un pochino il sonno.
Come si ricorderà, Pepè era escluso dal latte a colazione, poiché non ritenuto bisognoso di quell’alimento.
Ma la voglia e il piacere del latte erano troppo forti, e pur sapendo di non fare una bella azione, appena vedeva la porta dello stanzino aperta, e nessuno in vista, sgattaiolava e rubava un sorso di quel latte, scappando subito dopo.
Questo ‘furto’ era ormai pianificato, quando una sera, nel sorso veloce nella gola, col latte era sceso qualcosa che non avrebbe dovuto esserci.
Il dubbio era che fosse una mosca, ma anche un ragno non era da escludere.
Da quella volta, le veglianti avevano potuto contare sulla razione di latte completa.

Suor Giuseppina.
Era una suora minuta, uno scriciolo di suora.
Curava la cucina, per quanto toccava alla famiglia: verdure, uova, piatti personali (tipo il mangiare in bianco), scaldare le vivande nel caso di qualche ritardo (come succedeva con l’addetto alla lettura del libro durante il pasto).
Il grosso del mangiare arrivava dalla cucina centrale; in quella della famiglia si suddividevano le porzioni nei piatti e si rifiniva se del caso.
Curava anche un piccolo pollaio adiacente al palazzone.
Le stesse premure che aveva verso i ragazzi le usava verso le galline.
Quando c’erano le uova, quasi di nascosto le dava da bere ai ragazzi che sapeva più bisognosi di un qualcosa di più, come quelli che dovevano sorbire l’olio di fegato di merluzzo.
Era di una umiltà e di una riservatezza uniche: se vedeva un ragazzo che faceva qualcosa che non avrebbe dovuto fare, lo sgridava, ma con dolcezza; e, soprattutto, la cosa finiva lì.
D’estate veniva mandata in colonia per qualche giorno, al mare o in montagna, per riposare un pochino e respirare un po’ d’aria buona.
Regolarmente, ogni anno, rientrava con gli occhiali rotti: una volta la stanghetta, un’altra il poggianaso, altra ancora una lente…
E di ciò si disperava fino alle lacrime, per il danno che portava alla comunità.
Se la santità delle persone fosse assegnata per meriti, suor Giuseppina sarebbe una santa.

domenica 5 settembre 2010

La cittadina allargata

Alle famiglie maschili, in altra zona, corrispondevano quelle femminili.
Ai giuseppini, maschietti, c'era il pendant delle orfanelle.
Agli invalidi, le invalide; ai sordomuti, le sordomute, e così via.
Oltre a questi reparti di ricovero, in un'altra zona, separata da una strada, c'erano le "infermerie".
Era un modo improprio di definire un vero e proprio ospedale.
Al piano terra c'era tutta una serie di ambulatori, completa in tutte le specializzazioni: da quello dentistico a quello chirurgico, da medicina generale a ginecologia (Pepè non sapeva cosa fosse, ma c'era, e se c'era a qualcosa doveva servire), da ortopedia a pediatria.
C'erano tutti, e pare che fossero seguiti da fior di professionisti.
Erano aperti anche agli esterni; non c'erano tariffe per le visite e per le cure: chi poteva faceva un'offerta libera, chi non poteva ringraziava.
E un "grazie" pagava la visita.
Gli ospiti della cittadella avevano la precedenza nelle visite sugli esterni: facevano parte della 'famiglia', e come famigliari erano trattati.
Ai piani superiori e in complessi distaccati, erano situate le già citate infermerie.
Erano lunghe camerate, con i letti affiancati su due lati, divisi dal comodino e da una sedia.
Al fondo di ciscuna di queste camerate era situato un piccolo altare; a fianco la sala medicazioni, che al mattino presto serviva alla vestizione del sacerdote in vista della messa.
In queste infermerie veniva ricoverato chi necessitava di cure ospedaliere, di medicina o chirurgia; per i malati cronici c'erano altri reparti appositi.
L'assistenza, sia negli ambulatori che nelle infermerie, era affidata alle suore e ai fratelli. Una scuola infermieristica interna ne curava la preparazione.
Tornando alla vita di Pepè, dopo l'inizio della scuola, questa era scandita da tempi prefissati e quasi immutabili nel tempo.
Una parte importante di questi tempi era dedicata, come già detto, alle funzioni religiose; poi la scuola, i periodi di ricreazione nel corso della giornata, che non erano mai abbastanza lunghi (a posteriori, per la verità, non erano brevi), ma spezzavano abbastanza i tempi per le altre occupazioni.
Tra queste, oltre le lezioni di canto (inutili e superflue per lui) e la ginnastica, c'era l'insegnamento "a servire messa".
Si trattava di imparare a fare i chierichetti.
Questo servizio non era destinato alla 'chiesa grande'. Là ci pensavano i fratelli; l'accesso a questo servizio era allora precluso alle donne, quindi anche alle suore. Ma era una disposizione generale della chiesa di quei tempi.
I chierichetti erano destinati al servizio della messa nelle infermerie.
Quelli destinati a quell'ufficio avevano la sveglia alle cinque e mezzo del mattino, per essere presenti nelle varie sedi alle sei, orario di inizio delle messe, più o meno in contemporanea in ciascuna infermeria.
Ci si avviava in gruppo fino alle diverse diramazioni, e nello stesso punto di separazione ci si ritrovava al termine della funzione.
In queste grandi camerate quello che colpiva ogni mattina erano gli odori della notte.
Odori di urine notturne, di medicinali, di chiuso, di respiri affannosi.
Soprattutto nei reparti maschili.
In quelli femminili, già all'alba leggeri profumi coprivano in parte gli odori sgradevoli.
Così, con pochi partecipanti alla preghiera, molti dormienti, alcuni talvolta russanti, la messa era servita.
Al termine, ed era quanto mai piacevole, c'era sempre, ogni giorno, una 'mancetta' al chierichetto: un dolce, caramelle, un frutto, a sorpresa ogni tanto un piccolo giocattolino.
Anche in questo i reparti femminili si distinguevano: era tutto più vario e abbondante.
Dagli uomini, erano le suore che racimolavano qualcosa da dare ai serventi messa.
Dalle donne, erano le stesse ricoverate che mettevano insieme un po' di bendidio: forse prevaleva in loro lo spirito materno, verso chi sapevano bene che questo spirito non lo avevano mai provato.
Ogni tanto, guardando la camerata, o percorrendola per portare la comunione a chi l'aveva richiesta, si notava un letto vuoto, con il materasso piegato in due.
La domanda era sempre la stessa: paziente dimesso, o paziente deceduto?
Una preghierina, spontanea, ci scappava: se dimesso come augurio, se deceduto come addio a uno sconosciuto che aveva preso un'altra strada.
Al luogo di raduno, si scambiavano i doppioni delle mancette ricevute, e poi in chiesa grande per la fine di quella messa, che era sempre più lunga di quella delle infermerie.
Sia perché iniziava più tardi, sia perché le comunioni a decine e decine di suore, religiosi e ricoverati, allungavano i tempi di quella funzione.
Per i chierichetti c'era lo spazio temporale per un sonnellino, turbato di tanto in tanto dalle nocche dell'assistente che, battendo sul banco, invitava alla sveglia.

venerdì 20 agosto 2010

Altre famiglie

Della sua famiglia e di quella più prossima, scolasticamente, ne aveva già parlato.
Col tempo, negli anni a seguire, aveva scoperto l'esistenza di altri gruppi di persone che, come Pepè, sopravvivevano alla "fortuna" di una vita sventurata.
Adiacente a quella dei giuseppini, c'era la famiglia detta dei Buoni Figli.
Erano persone che, senza essere pazze, avevano handicap mentali che le rendevano assenti da quanto li circondava.
Il fondatore della cittadella li riteneva i prediletti del Signore, e quindi, almeno in teoria, erano trattati come tali.
Nel tempo, Pepè non aveva avuto sentore di maltrattamenti verso di loro, o di violenze da parte di questi poveri disgraziati verso altri ospiti.
Avevano i loro tic, e non venivano ostacolati, perlomeno non in maniera visibile agli esterni.
Il tempo glielo facevano passare rompendo i gusci a montagne di frutta secca, commissionati da grandi aziende dolciarie: non avevano macchinari speciali, con piccoli mortai spezzavano i gusci di nocciole noci mandorle, gettando i frutti puliti in grandi ceste e i gusci in altre.
Quando Pepè e i compagni riuscivano a entrare nel 'laboratorio', assenti gli addetti, erano manciate di frutta secca che riempivano le tasche, e poi quell'angolino di stomaco tenuto, non volontariamente, vuoto in attesa di qualunque supplemento al vitto quotidiano.
C'era poi la famiglia dei Sordomuti.
In chiesa, soprattutto, ma anche in occasione di recite occasionali nel cinema-teatro, era uno spettacolo guardare le mani e le dita e le espressioni del viso di chi "parlava" con loro.
I dialoghi tra loro, poi, davano l'impressione di una vivacità che, forse, la voce non avrebbe saputo esprimere.
Certe volte sembrava di 'sentirli' gridare nel loro silenzio assoluto.
Particolarmente impressa nella mente gli è rimasta la famiglia degli Invalidi.
Non Diversamente Abili, come vennero anni e anni dopo identificati i portatori di handicap.
Anche questo termine era sconosciuto, allora.
Erano semplicemente invalidi.
Signori invalidi!
Pur essendo ancora ragazzini, dalla loro frequentazione avevano imparato che la mancanza di gambe, di braccia, la cecità erano semplicemente incidenti di percorso, talvolta dovuti alla natura, altre volte provocati da accidenti casuali.
Avevano un laboratorio di legatoria, pieno di macchinari per rilegare, grandi taglierine per la rifilatura dei volumi, colle e inchiostri, risme di carta e cartoni...
Guardarli al lavoro, con le macchine rumorose, con le grida per superare il baccano di queste, era un vero e proprio divertimento.
Di alcuni gli era rimasto impresso anche il nome, oltre a particolari fisici che rendevano affascinante quello che facevano.
C'era Didimo: senza gambe, da subito sopra il ginocchio; stava seduto su un sgabello di legno, e con quello 'camminava' senza dare l'impressione di invidiare le gambe umane degli altri.
Come gli altri, lavorava nella legatoria, ma era più conosciuto come barbiere: barbe e capelli della sua famiglia, e di altre che si affidavano a lui, erano oggetto di cura a livello professionale.
Non c'erano sedie o poltrone girevoli, quindi 'saltellava' intorno ai clienti su queste sue gambe di legno.
Giorgio: cieco totale; Pepè non aveva saputo se lo fosse dalla nascita, o successivamente.
Veramente non aveva neanche cercato di saperlo: era cieco, punto e basta.
Vestiva con una certa eleganza, prediligeva le giacche a doppio petto, raramente era senza cravatta, i capelli imbiancati, leggermente ondulati, sempre in ordine.
Gli abiti, a ben guardare, erano un po' sdrusciti, lisi dall'uso, ma portati con una dignità da gran sartoria.
Con lui Pepè aveva passato ore, ad ascoltare la "lettura" dei suoi libri, punteggiati in braille.
Amedeo: viaggiava in carrozzina, non c'erano ancora quelle a trazione elettrica, con la manopola laterale dava la spinta al mezzo, che aveva una catena come le biciclette.
Con Amedeo, Pepè aveva fatto un incidente, per fortuna senza conseguenze.
Pepè aveva un modo un po' strano di correre: anziché farlo come tutti, viso volto in avanti e occhi aperti, lui chiudeva gli occhi e gettava la testa all'indietro, forse per meglio assaporare l'ebrezza della corsa.
Quello stava facendo, un giorno, quando da lontano era spuntato Amedeo sulla dirittura della sua corsa.
Occhi chiusi, viso verso l'alto, non aveva proprio sentito il grido di Amedeo che gli diceva di spostarsi.
Impatto frontale: Pepè da una parte, Amedeo a terra, con la carrozzina sopra di lui.
Agli accorsi in aiuto di entrambi, questo 'invalido' gridava di vedere se il ragazzo si era fatto male, di non pensare a lui...
Risultato dell'impatto: Pepè ginocchia e gomiti sbucciati, Amedeo una mano sanguinante e carrozzina semi sfasciata.
Questa famiglia Invalidi aveva anche una banda musicale: non poteva seguire le processioni o altre manifestazioni per evidenti motivi di mobilità.
Ma una volta sistemata in postazioni fisse dava spettacoli che nulla avevano da invidiare alle bande musicali itineranti.
Giorgio, il cieco, suonava la cornetta, e il suo Silenzio solitario alla fine dei concerti faceva emozionare ben oltre il pezzo stesso.
La grancassa era affidata a un focomelico: una specie di manina gli spuntava all'altezza di un gomito, mentre l'altro braccio era quasi tronco verso metà avambraccio.
Questi due moncherini venivano fasciati da due larghe cinghie di cuoio, cui erano collegati gli attrezzi per battere la cassa.
E tromboni, trombe, tamburelli, flauti, piatti, triangolo... una banda al completo.
Questa "famiglia" suscitava emozioni, mai sguardi di pietà o commiserazione.
Tutt'al più, nei cosiddetti normali, un senso di inadeguatezza, di capacità limitata da un corpo completo.

giovedì 12 agosto 2010

Scuola di canto

In precedenza, Pepè aveva accennato alle difficoltà incontrate a scuola con la matematica e il disegno.
Col tempo le aveva superate, senza peraltro innamorarsene.
Con il progredire dell'anno scolastico era venuta fuori un'altra materia: il canto.
Questo corso era seguito dal prefetto in persona; c'era un piccolo pianoforte, lui suonava e i ragazzi cantavano.
All'inizio c'era la scala musicale e i solfeggi seguendo questa.
Per tutti, questa scala era in salita e in discesa, a seconda delle indicazioni del solfeggio.
Per Pepè era una scala assolutamente priva di salite o discese.
Era una scala appoggiata in lungo sul pavimento, da percorrere senza bassi o acuti; unico ostacolo potevano essere i pioli, ma con un po' di attenzione ci si poteva camminare senza inciampi.
Insomma, negazione assoluta al canto.
Il prefetto le aveva tentate tutte: lo faceva provare da solo, con ragazzi più intonati, con il coro al completo.
Non c'era stato niente da fare.
La scala l'aveva imparata, e tutt'ora la ricorda bene: do re mi fa sol la si do - do si la sol fa mi re do.
Ma che fosse richiesto un 'la' oppure un 'mi', o qualunque altra nota, con le diverse tonalità, per lui erano note piatte, tutte uguali.
Dopo infiniti tentativi, il prefetto si era rassegnato, e aveva rinunciato a un membro del coro.
Poiché comunque faceva parte del gruppo, non potendo allontanarlo, aveva risolto il problema della sua presenza con il divieto assoluto di emettere suoni, né musicali né parlati.
La sua fiducia in Pepè era tale che, sia nelle prove che nei cori ufficiali, se lo teneva al suo fianco, a portata d'occhi, in modo da bloccare sul nascere eventali fuoriuscite di suoni dalla sua bocca.
Una guardataccia stroncava ogni incidentale tentativo di interferenza nella coralità dei compagni.
Poteva, doveva, muovere le labbra, accompagnando le parole dei canti.
In pratica era il solista silente del gruppo.
In testa c'era lo studio degli inni sacri, e già questi erano un'infinità.
Poi c'erano le canzoni profane.
Il Va pensiero, La canzone del Piave, Inno a Roma, canzonette alpine e locali, nonché quelle patriottiche in voga all'epoca.
E, ovviamente, l'inno nazionale di Mameli.
Pur tacendo le aveva imparate tutte; secondo il suo punto di vista, anzi di udito, in maniera splendida.
Col passare degli anni, di molti anni, gli era rimasto il complesso di questo suo essere 'fuori tono': per cantare a pieni polmoni si dovevano, e si devono, verificare alcune situazioni favorevoli, in cui le stonature sono sopportate, e in alcuni personalissimi casi addirittura ignorate.
In cene private, in casa di amici, il dopo cena, dopo più o meno abbondanti libagioni, quando tutto va bene.
E viaggiando, da solo, in macchina. E' il posto preferito per sfogare la passione musicale repressa da ragazzo.
Alla scuola, qualche spiritoso aveva suggerito gargarismi di lisciass e segatura per tentare di arrotondare un po' la vocalità.
Un po' perché la liscivia gli faceva schifo, un po' perché proprio tonto non era, non aveva preso in considerazione questo esperimento.
Stonato era, e tale è rimasto.
Ma chi volesse leggere il labiale di tutte le canzoni, si accorgerebbe che la musicalità silenziosa è perfetta.

mercoledì 11 agosto 2010

La famiglia

La cittadella era divisa in settori, detti famiglie.
Quella di Pepè era la famiglia dei Giuseppini.
Ma i ragazzi erano più noti come 'fratini'.
Come 'piccoli frati'.
Forse con la speranza che, alla fine della scuola, qualcuno si affezionasse, o ricevesse la vocazione, per restare al servizio di altri poveretti come loro.
A conoscenza di Pepè, nel lungo periodo di permanenza e anche dopo, uno solo aveva raccolto l'invito e, raggiunta l'età, aveva indossato la tonaca di 'fratello'.
Protettore di questa famiglia era san Giuseppe.
Il percorso scolastico prevedeva dalla terza elementare alla quinta.
Quasi adiacente c'era la famiglia dei luigini.
Ovviamente protettore san Luigi.
Comprendeva l'ultimo periodo della scuola materna e la prima e seconda elementare.
Con l'inizio ufficiale dell'anno scolastico, era iniziata la cadenza di un modulo di vita che si sarebbe ripetuta, uguale, negli anni successivi.
Sveglia al mattino, per alcuni molto presto, e più avanti racconterà il perché, messa, colazione (di cui ha già accennato), breve ricreazione, scuola.
Il pomeriggio aveva inizio con il pranzo, poi ricreazione nel cortile (d'inverno o con il tempo brutto nel ricreatorio); seguiva il rientro in aula, l'interruzione per la cena, ancora ricreazione fino all'ora di andare a letto.
Nel palazzo non esisteva l'acqua calda.
L'inverno, piuttosto gelido, spingeva a lavarsi soltanto gli occhi, bagnando velocemente i polpastrelli degli indici e limitando la pulizia alle impurità notturne delle palpebre.
Il riscaldamento, in tutti i locali, era dato da enormi termosifoni, alimentati da una grande caldaia a carbone, situata in un locale apposito, nello stesso piano del refettorio, nella parte sotterranea.
Un addetto esterno, quando ancora era notte, faceva il giro delle caldaie da accendere o da ravvivare, in modo da dare calore ai termosifoni prima della levata dei ragazzi.
La mancanza di acqua calda per lavare le stoviglie, era sopperita con l'invio di due ragazzi, quelli più robusti, che con un mastello si recavano, mezzogiorno e sera, a prelevarla da un grosso rubinetto, che la erogava giorno e notte, collegato a una lavanderia in continua attività.
A periodi non prestabiliti, la stessa operazione di trasporto dell'acqua era necessaria quando si dovevano lavare i piedi: c'erano lunghe vaschette di legno con l'interno in lamiera, affiancate da basse panchine, sempre in legno, con cinque o sei ragazzi per parte che tuffavano i piedi, tutti insieme, in queste bagnarole.
Naturalmente le spruzzate vicendevoli facevano parte del rito del lavaggio.
Interrotte dagli assistenti quando superavano i limiti di un gioco, o quando scoppiavano le liti per l'esagerazione di questo.
Il momento più temuto dopo il lavaggio dei piedi era il taglio delle unghie.
Questa operazione era affidata alle suore.
Che, vuoi per l'età vuoi per lenti inadeguate, ogni volta riuscivano a tagliare, con le unghie, anche la pelle circostante.
Sangue, alcol (c'era solo quel disinfettante), un cerotto...
E addio pallone per qualche giorno.
Come vestiario, la dotazione era molto semplice.
Ai piedi un paio di zoccoli di legno, con la tomaia a coprire il collo del piede e le caviglie; chiusa da legacci passanti negli occhielli.
Mutande, un po' alla buona, pantaloncini corti, una camicia.
D'inverno un maglione da mettere sopra la camicia.
Niente canottiere o magliette 'di sotto'.
Ogni tanto c'era il cambio della biancheria 'intima' e della camicia.
Più raramente quello del cambio del pantalone, a meno di strappi o sporcizia (terra, fango, erba o altro) evidenti.

sabato 31 luglio 2010

Terza elementare

Il rientro dalla colonia era stato come un 'fine ricreazione'.
Il nuovo anno scolastico, il primo della serie allora obbligatoria, sarebbe stato come un originale, cui sarebbero seguite le copie quasi identiche degli anni a seguire.
Intanto la conoscenza delle maestre.
Erano tre suore, una per ogni classe.
In terza c'era suor Beatrice.
Una suora 'sui generis', come più avanti Pepè avrebbe imparato a definire qualcuno o qualcosa fuori dall'ordinario.
Era fuori dall'ordinario delle suore conosciute fino ad allora.
Era piuttosto giovane, un viso con le gote che sembravano due mele, quelle rosse e gialle; gli occhi, anche nei momenti di severità, ridevano sempre.
Era sempre allegra, sprizzava e trasmetteva questa sua allegria.
Prima di essere richiamata alla casa madre, era stata in un paese lontano, in cui, vista la sua spigliatezza, sicuramente aveva lasciato un buon ricordo e rimpianti.
Ogni tanto faceva vedere ai suoi ragazzi delle fotografie; una, in particolare, era rimasta impressa nella mente di Pepè: suor Beatrice alla guida di un motorino, tonaca al vento, sorridente di quel tipo di sorriso che indica felicità, piacere di vivere.
La quarta era di suor Crocifissa.
Delle tre insegnanti era la più anziana.
Aveva il pallino dei serpenti. In soffitta ne aveva una raccolta dei più svariati.
Erano dentro dei contenitori di vetro, immersi, forse, nell'alcol.
Ogni tanto portava un boccaccio in aula e se lo metteva davanti sul piano della cattedra.
Dopo le prime paure, quelle che impedivano perfino di toccare il vetro, si erano abituati a quelle strane presenze; piano piano, mandando qualche coraggioso in avanscoperta, erano arrivati all'osservazione ravvicinata.
Per 'ravvicinata' era inteso un buon metro di distanza; la prudenza aveva comunque il sopravvento.
La quinta era di suor Maria Pia.
Piccoletta, rubiconda e con modi da signora.
Dai passaparola con i compagni, Pepè aveva saputo che si trattava di una nobildonna, che con la vocazione aveva lasciato il 'mondo' per mettersi al servizio dei poveri.
Forse era una leggenda, tramandata di anno in anno nel passaggio delle consegne a chi seguiva.
A far credere che non fosse solo leggenda, questa suora aveva un dente in oro giallo e la montatura degli occhiali pure in oro.
Almeno, il colore era oro.
Dell'insegnamento vero e proprio, Pepè non ricordava molto; anzi proprio nulla.
Era stato sempre promosso, ma dovesse dire con quali voti, non lo saprebbe.
Ricordava, però, che le sue 'bestie nere' erano la matematica e il disegno.
Per la matematica era in ottima compagnia; per il disegno superava tutti.
In negativo.
Non era tanto il disegnare che appariva difficile, quanto il salvare i fogli da ditate, cancellature su cancellature, che alla fine riducevano i fogli a carta poco meno che straccia.
Fuori dall'aula, aveva fatto conoscenza con l'educazione fisica.
La seguiva il prefetto in persona.
Consisteva nell'arrampicata su delle pertiche, infisse nel pavimento e fissate in alto in anelli appositi; poi gli assi d'equilibrio e ginnastica.
Pepè non aveva mai avuto a che fare con questa materia; visti i suoi precedenti era improbabile che potesse conoscerla.
Una delle voci della ginnastica che gli aveva creato problemi era stato il coordinamento nella marcia; intanto la cadenza delle braccia in corrispondenza con i movimenti delle gambe, poi il rispetto dei comandi di 'passo' e 'cadenza'.
Agli inizi disastrosi aveva fatto seguito l'affidamento a un ragazzo più grande, per una specie di svezzamento sulla materia.
Durante la ginnastica indossavano tutti delle magliette bianche, che sul petto e sulla schiena avevano una sigla, allora incomprensibile: ONB.
Non avevano neanche tentato di decifrarla, anche perché non rientrava nei loro interessi.
Molti anni dopo, Pepè avrebbe scoperto che, per esteso, quella sigla diceva: Opera Nazionale Balilla.
La guerra, di cui aveva sentito vagamente parlare, era finita da qualche anno; quelle magliette dovevano essere avanzi di quel tempo, ma sarebbe stato un peccato gettarle.

giovedì 22 luglio 2010

Tempo di transizione

Presa un po' per volta conoscenza dell'edificio, Pepè si era dovuto adeguare ai tempi che scandivano ogni giornata, tutte le giornate.
Della messa alla mattina ne aveva già parlato, della colazione pure.
Pur essendo finita, altrove, la scuola, qui le lezioni continuavano; con orari ridotti e con argomenti a caso, non necessariamente legati alle materie di studio.
Era più un assaggio di ciò che ciascuno sapeva; valeva soprattutto per i nuovi arrivati, dei quali non si poteva sapere il grado di preparazione per l'inizio del prossimo anno scolastico.
Dove si notava carenza, si cercava di aggiornare, o ripassando o immettendo nuove conoscenze.
A scuola andavano al mattino, per circa tre ore, e al pomeriggio per un altro paio.
Al centro della giornata c'era il pranzo.
Piatti di metallo, come le scodelle del mattino.
Del pasto in sé non aveva ricordi speciali; rammentava però che la pastasciutta o il riso, quando c'erano, facevano da contorno o a un pezzo di carne o a una fetta di formaggio.
Si pranzava, e cenava, più o meno in silenzio. Se l'assistente era distante, qualche parola ci scappava.
Ai ragazzi fisicamente labili, gli stessi del latte al mattino, prima del pasto veniva dato un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo; chi era seduto a fianco di questi "beneficati" doveva sorbirsi il fetore di quest'olio, che i diretti interessati cercavano di diluire nel gusto, talvolta mescolandoli alla minestra.
Ottenevano solo il prolungamento di quel gusto e di quel fetore.
Per agevolare il silenzio, in un lato del refettorio c'era un leggìo, rialzato per meglio diffondere la voce di chi, con turni settimanali, leggeva un libro.
La lettura aveva inizio al "seduti silenzio", e terminava con il cenno dell'assistente per la fine del capitolo, comunque del pasto.
Nel tempo, parecchi volumi erano passati da quel refettorio, ma uno era stato particolarmente ripetitivo: "Senza famiglia" di Ettore Malot.
Forse per meglio restare nel tema dell'orfanotrofio.
In agosto era previsto un periodo in colonia, al mare.
Erano quattro settimane abbastanza spensierate, tra bagni, giochi nella sabbia (che ricordava bollente come mai più l'avrebbe trovata nel suo futuro), giochi nel grande cortile interno, che fiancheggiava una strada statale.
Di quel primo assaggio della colonia, gli era rimasto impresso l'episodio del costume da bagno.
Pepè, come detto, era piuttosto mingherlino, e l'unico costume che gli andasse bene era un piccolo costume intero, giallo.
Aveva un piccolo difetto: bagnato nell'acqua di mare diventava trasparente, per cui le sue minuscole parti intime erano esposte agli sguardi, e relative prese in giro dei compagni.
Ovviamente non era durato più di tanto; non sapeva se comprato appositamente o comunque trovato, anche a lui era stato assegnato un pantaloncino adeguato.
Sempre salva la messa del mattino, ma in una cappelletta più intima, a colazione il latte era per tutti. I pasti erano più variati, perfino più colorati. Anche i panini avevano l'odore del pane appena sfornato.
La preparazione al bagno in mare aveva un suo cerimoniale.
C'era una casotta su due piani; il primo, leggermente rialzato dal livello della spiaggia, era destinato a tre file di cabine, il cui uso era riservato alle suore (che al mattino presto, prima dei ragazzi, andavano a fare le sabbiature), agli assistenti e ai sacerdoti presenti in colonia.
In un angolo c'era una grande vasca in cemento, in alto una doccia.
Sopra questo piano c'era uno stanzone vuoto, adibito alla vestizione dei costumi prima della scesa in spiaggia, e al cambio al rientro dal mare.
I ragazzi si mettevano lungo i muri di perimetro, faccia al muro, si sfilavano il calzone e mettevano il costume; stessa operazione all'inverso al rientro dal bagno.
Alle pareti una fila di attaccapanni, sovente ignorati per la fretta di correre in acqua.
Al rientro, i costumi bagnati di acqua salmastra andavano risciacquati nella vasca su detta e stesi sulle rocce circostanti la spiaggia.
Riuscire a farsi anche la doccia era un'impresa, nella calca di ragazzi con la premura di andare in spiaggia.
Inoltre i "grandi" avevano la precedenza.
Uno dei passatempi preferiti, consisteva nel mettersi proni lungo il grande cancello metallico, che lasciava un po' di spazio alla base, per vedere le macchine che passavano sulla statale: si leggevano le lettere delle targhe e si cercava di indovinare la provincia di provenienza.
Alla sera, dopo la cena, un sentiero portava a una località detta "la spianata"; non ha mai saputo il perché di quella definizione, visto che si trattava di una vallata, in fondo alla quale c'era il tracciato di quello che un tempo era stato un fiumicciattolo.
Che forse tornava ad esserlo con le piogge; ma piogge negli agosti di quel tempo non ne scendevano.
Questa spianata era piena di alberi, erba alta, tanti pini, e la raccolta dei pinoli andava per la maggiore. Poi giocavano, sulla falsariga dei ragazzi della via Pal, una delle letture lasciate in città.
Con l'imbrunire avveniva il rientro, seguito dalla buonanotte.
In due camerate, più ridotte di quelle conosciute, comunque caldissime; e abitate, oltre che dai ragazzi, anche da una miriade di zanzare.
Un altro dei ricordi di Pepè era la carenza di acqua da bere.
Pur essendo allenato da quella del suo paese, la mancanza di acqua in un paese di mare, caldissimo, si faceva sentire di più.
C'era un rubinetto nel cortile, mezzo arrugginito, forse per il poco uso durante l'anno, che ogni tanto pigolava un po' di acqua. Veniva subito preso d'assalto da un nugolo di assetati.
I più fortunati, che guarda caso erano anche i più robusti, riuscivano a dare qualche sorso.
Per gli altri non restava che attaccarsi letteralmente al rubinetto, succhiando le ultime gocce rimaste all'interno della conduttura.
Fine della colonia.
Rientro in città.

giovedì 17 giugno 2010

Si comincia

La primissima parte della nuova esistenza, per un breve periodo, era stata dedicata alla conoscenza dell'ambiente, quello fisico.
Subito dopo, o meglio in contemporanea, si era dovuto abituare a nuovi ritmi, a un modo di vivere totalmente diverso da quello precedente.
Uno dei primi ostacoli lo aveva trovato nel capirsi con gli altri compagni d'avventura. O di sventura.
L'italiano imparato al paese non era sufficiente a capire e farsi capire. Questa situazione, peraltro, era comune un po' a tutti: era una piccola Babele, una macedonia di dialetti che ciascuno portava in dote dai paesi di provenienza.
Che erano molti, e geograficamente sconosciuti l'uno all'altro.
Le giornate, in quel periodo di prima estate, erano scandite da tempi precisi.
Intanto, la messa. Tutti i giorni. In chiesa grande.
Più avanti nel racconto Pepè spiegherà il motivo dell'aggettivo "grande" a questa chiesa.
Che, in effetti, grande lo era veramente. In quel primo approccio, la curiosità aveva avuto il sopravvento sul sonno, che, finito il tempo delle scoperte, avrebbe poi accompagnato le sue visitazioni matutine.
Per adesso si guardava intorno, confrontava con la chiesa del suo paese, che fino ad allora era l'unica che conosceva.
Più o meno: a parte l'acquasantiera che lo aveva dissetato, ricordava vagamente la sacrestia, con armadi altissimi (in realtà non lo erano, ma la sua minuzia glieli facevano ricordare così), i banchi, la navata centrale. Quando si riempiva, la domenica e le feste comandate, era un miscuglio di persone, vestite ciascuna secondo le proprie possibilità, sparse secondo le conoscenze, perchè la messa era l'occasione per scambiarsi informazioni, commentare i fatti della settimana.
Per le donne, soprattutto di concludere pettegolezzi, talvolta iniziati al mercato della settimana precedente.
Le preghiere venivano espresse in un coro cacofonico, nel senso che ciascuno era libero di interpretarle a modo suo.
Dei canti liturgici, sempre al paese, non ricordava molto; ma se seguivano la libera interpretazione delle preghiere, è facile pensare al padreterno con i tappi alle orecchie.
In questa nuova chiesa, tutto era ordinato, i posti assegnati per le varie zone restavano invariati, non c'era la possibilità di sconfinamenti da un settore all'altro.
Questi settori erano principalmente tre.
Guardando l'altare maggiore, nel corridoio a destra c'erano i banchi per gli uomini. Anche i bambini rientravano in questa categoria, ed avevano il loro preciso angolo di preghiera.
La navata centrale, molto ampia, era il regno delle suore. Queste si dividevano in varie formazioni, con abiti che differivano l'una dalle altre. E ciascun gruppo aveva il suo spazio, inamovibile.
Il corridoio di sinistra era dedicato alle donne laiche. Anche qui, come i mini maschi, le bambine erano considerate donne.
Le preghiere, quelle senza musica, avevano una uniformità e una precisione nell'inizio e nella fine, che lasciavano sbalorditi.
E nessuno a dare segnali di "vai" o "stop": la ripetizione continua, evidentemente, aveva automatizzato il mormorio delle orazioni. E in seguito, la monotonia avrebbe conciliato il sonno, già bagaglio pesante di ogni mattina.
Le domeniche, e le solite feste comandate, le messe diventavano due; quella matutina e quella cantata, la messa solenne, che era un tripudio di canti e cori polifonici, ovviamente interpretati dai vari settori delle suore.
C'era, in queste funzioni, una vivacità e una coralità che non consentivano i sonnellini del mattino. E, comunque, alle dieci del mattino, dopo qualche corsa nel cortile, ormai anche il sonno era svanito.
Al rientro dalla messa, nel refettorio prima descritto, c'era la colazione.
Le scodelle erano di metallo, un po' perché il dopoguerra qui non era ancora iniziato, un po' per evitare cocci, probabili vista la vivacità in dote a quell'età.
Il latte era scarso, ed era destinato ai ragazzi più delicati, come salute e come conformazione fisica.
Pepè, nonostante il nanismo tipico dell'isola di provenienza, non rientrava tra i beneficiari di questo alimento.
La colazione consisteva in una tazza di brodo vegetale; la parte superiore della scodella era occupata dal brodo liquido, nel fondo era adagiata una poltiglia di patate e altre verdure, macinate per creare il brodo, appunto vegetale.
Nei suoi ricordi, questa poltiglia restava sul fondo della scodella. Proprio non andava giù, al di là del fatto che fosse a colazione.
(Più avanti con gli anni si sarebbe reso conto che, del brodo, quella poltiglia era la parte migliore; ma per lungo tempo lui, e i compagni di questo tipo di colazione, l'avevano considerata una schifezza. Ma quello passava il convento, e non c'erano alternative).

sabato 5 giugno 2010

Il nome e altro

Una delle prime cose che aveva scoperto all'arrivo nell'orfanotrofio era che le suore e i fratelli laici, al momento dei voti religiosi, cambiavano nome: ne ricevevano uno, forse a loro scelta, che li avrebbe accompagnati fino alla fine del loro servizio; o fino alla fine della loro "vocazione".
Era un sancire l'addio (che talvolta era solo un arrivederci) al passato, per iniziare una nuova vita, fatta di sacrifici diversi da quella precedente, fatta soprattutto di dedizione alla cura degli altri.
Ricalcando questa usanza, il ragazzino ha scelto di prendere un nome nuovo, che lo accompagni nel prosieguo dell'avventura. Parlando di lui, i riferimenti al "bambino" o al "ragazzino" erano diventati ingombranti nella stesura del racconto.
(D'altra parte, continuare a definire "bambino" uno che bambino non era mai stato, ormai gli sembrava una forzatura poco opportuna. Nell'ospizio da poco lasciato, lui non era stato un bambino: era il vecchietto più giovane, di decenni rispetto agli altri).
Così, lasciando il proprio nome al di là del mare, nell'isola che lo aveva visto nascere, con i ricordi della prima parte della sua esistenza, non propriamente felici, aveva scelto di chiamarsi Pepè; un nome non impegnativo, assente dal calendario dei santi, quindi senza possibilità di feste di onomastico, che comunque anche con il nome suo proprio non aveva mai festeggiato.
Il suo arrivo nella nuova casa aveva coinciso con un fatto che, a poco più di un mese dall'essere avvenuto, era ancora oggetto di commenti e, visto l'ambiente, di preghiere.
Appunto poco più di un mese prima, un aereo si era schiantato contro una collina presso la città. Su quell'aereo c'era una squadra di calcio e altre persone, tutti morti nell'incidente.
Del calcio, Pepè non sapeva nulla; i calci, quelli sì li conosceva, poiché nelle liti con i compagni se li scambiavano spesso: dato il suo essere minuto, tanti erano quelli che prendeva e pochi quelli che riusciva a dare.
Alle sue gambette corte, in quelle battaglie, sopperiva tentando di mordere (allora i denti lo consentivano), o tirando all'avversario qualsiasi cosa a portata di mano.
D'altronde all'ospizio, né i vecchietti né le suore erano in grado di erudirlo sul tema. E neanche la scuola; sull'argomento calcio c'era un'ignoranza generalizzata, che Pepè si era portato appresso nel trasloco.
Dai commenti di quel disastro aereo, aveva appreso che c'era un mondo, quello del calcio, triste per la scomparsa di una squadra che, con tante altre squadre simili, giocava "al pallone", rincorrendo una grossa palla, cercando di portarsela via a vicenda, puntando verso dei pali entro cui scaraventarla.
Quando succedeva erano grida di gioia da una parte, e mugolìi di delusione dall'altra.
Il gruppo, diciamo, dirigente era diviso nel "tenere" per una squadra o per altre. Ma due in particolare erano le più quotate: una di queste era proprio quella dell'aereo caduto.
C'era un assistente (come già detto un fratello laico), che di questa squadra era veramente fanatico: forse nei voti di abbandono della vita precedente, non era previsto di dover lasciare la propria fede calcistica. Così potevano convivere la Fede per vocazione e l'altra Fede per il colore di una maglia.
La frequentazione quotidiana di questo fratello (Lorenzo), i suoi occhi umidi ogni volta che si parlava dei "suoi" morti, non potevano non contagiare Pepè che, da subito, aveva scelto quel colore e quella bandiera come simboli di una fede calcistica, ancora niente conosciuta nelle sue glorie passate e non prevedibile nelle sue disavventure future.
Sono quelle scelte fatte senza un perché speciale.
Se quel tragico avvenimento non lo avesse influenzato, se avesse appreso nel tempo, con calma, i rudimenti di questo sport, forse le sue scelte avrebbero potuto essere diverse.
Forse.
O forse no: qualunque altra scelta avesse fatto, non sarebbe stata coerente con la sua parte di vita iniziale. Impossibile che a questa potessero seguire giorni di gaudio; la strada tracciata non lo consentiva. Infatti alla sofferenza per la scomparsa di "quella" squadra, sarebbero seguite le sofferenze continue per quelle successive.
Niente di nuovo sotto il sole.

martedì 1 giugno 2010

Un romanzo, forse una vita

7 - Nuova casa, nuova vita

Eravamo rimasti all'entrata, pronti a continuare la visita della nuova abitazione del ragazzino venuto d'oltremare.
Sulla destra, una scala portava a un piano rialzato.
Una porta introduceva a quello che era chiamato "ricreatorio". Un salone rettangolare, senza pilastri nel mezzo, leggermente angolato verso il centro, circondato da grandi finestroni sul lato sinistro (aperti verso il cortile citato il precedenza, quello del cinema/teatro), e in fondo (al di là di questi, a circa tre metri, un alto muro che impediva la visuale oltre questo).
Dal salone, da una porta si entrava in un corridoio, che dava accesso ai bagni dei ragazzi (soliti orinatoi a parete e bagni a porta chiusa, sempre alla turca, lunghi lavandini forniti di rubinetti a stella).
In fondo al corridoio, un locale adibito a laboratorio delle suore: qui cucivano e rammendavano i danni a pantaloni e calze dei ragazzi.
Lungo questo corridoio c'era una specie di portascarpe, con cassette, numerate con il numero assegnato a ciascuno di essi; lì si metteva il paio di calzature non in uso sul momento. Che erano quelle da uscita e degli zoccoli di legno con tomaia per giocare e per l'uso quotidiano.
Uscendo dal ricreatorio, continuando la scalinata, al primo piano, si arrivava al dormitorio, esteso verso sinistra in corrispondenza del ricreatorio stesso, e in prosecuzione al corpo dello stabile dall'altra parte.
C'erano tre file di letti, le due laterali con le spalliere verso i muri di perimetro, e una centrale per tutta la lunghezza del locale. A ogni letto corrispondeva una sedia, su cui appoggiare l'asciugamano e gli indumenti tolti per la notte.
Ai piedi di ogni letto un numero, lo stesso della scarpiera, che corrispondeva a quello assegnato a ciascuno degli ospiti, a ogni inizio d'anno scolastico.
Naturalmente anche il dormitorio aveva i suoi gabinetti, con le stesse caratteristiche di quelli descritti in precedenza.
Sul fondo, a sinistra c'era la stanza del "prefetto", che era il direttore di quella porzione di paese che stiamo visitando. Agli angoli estremi due tende nascondevano i letti degli "assistenti", religiosi laici, detti "fratelli".
Un'altra stanzetta era adibita alle riunioni dell'azione cattolica, qui molto sentita, quasi obbligatoria.
Continuando la salita delle scale, si tralasciavano al secondo piano dei locali, che non riguardavano l'abitazione del ragazzino.
Bisognava salire al terzo per trovare le aule della scuola.
Erano tre stanze, una per ciascuna delle tre classi previste, appunto terza quarta e quinta.
Aule di quei tempi: lavagne a cavalletto, girevoli, con porta gessi e straccetto per pulirle. Banchi con porta calamaio incorporato e scomparto sotto il piano per tenerci libri e quaderni.
Alle pareti le carte geografiche, ciascuna specifica per l'anno di studio, e altre stampe di fiori, animali piccoli e grandi, immagini dal mondo.
Anche qui c'era il locale dei gabinetti, di cui uno con vaso, ad uso delle suore insegnanti.
Completata a grandi linee la visita della nuova casa, più avanti entreremo nella vita quotidiana del ragazzo e dei suoi compagni.