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giovedì 14 ottobre 2010

Feste comandate

Le domeniche e le feste comandate, nei pomeriggi, dopo un’adeguata istruzione, il compito di Pepè era fare il telefonista.
All’entrata della cittadella c’era un centralino, presidiato da una suora, che verificava le entrate dei visitatori, e provvedeva a chiamare il numero della famiglia richiesto per invitare gli interessati in parlatorio.
Che era sistemato in una grande stanza, munita di sedie e tavoli, sufficienti per un buon numero di visitatori.
Questa entrata, questo centralino e questo parlatorio erano destinati ai reparti maschili.
Per quelli femminili, tutto l’apparato era altrove.
L’apparecchio telefonico, nella famiglia di Pepè, era piazzato in un angolo del dormitorio.
Nero, attaccato al muro, naturalmente a quella che si dice ‘altezza d’uomo’.
Pepè, oltre a non essere ancora un uomo, anche ad altezza lasciava a desiderare.
Sotto l’apparecchio, un tavolinetto e una sedia.
Pepè era stato preferito ad altri per quel compito, perché c’era la fondata certezza che nessuno lo avrebbe mai cercato.
Era diventato un posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ad ogni squillo doveva alzarsi per rispondere, perché da seduto non arrivava allo stacco della cornetta.
In seguito aveva attaccato alla forcella uno spago, al cui termine aveva legato un piccolo peso, una pietra; con la cornetta appoggiata sul tavolino, era sufficiente sollevare il peso, e rispondere direttamente.
Insieme a lui c’era un compagno, con il compito di messaggero: ad ogni chiamata andava a scuola o nel cortile per avvisare della visita.
Il tempo lo passavano leggendo o facendo le corse lungo i letti. Il dormitorio era abbastanza lungo da consentire belle galoppate.


Nelle feste ‘grandi’ le processioni erano d’obbligo.
Se capitavano nel periodo invernale, non era necessario vestirsi a festa: un tabarro nero copriva ampiamente i vestiti di tutti i giorni.
Ad alcuni arrivavano a mezza gamba; quello di Pepè copriva quasi fino alle caviglie.
Invece degli zoccoli si mettevano le scarpe e la trasformazione era completata.
Sempre d’inverno, con quelle mantelle si divertivano a correre nel cortile, facendole aprire a vela, come i cavalieri o i vampiri visti in qualche film.
Oppure facendo lunghe scivolate su strisce di cortile, opportunamente allagate la sera, per trovarle al mattino completamente ghiacciate.
Quando le processioni cadevano in periodi più caldi, avevano una giachetta blu, con il bavero e il colletto coperti da una camicia bianca, aperta sul collo.
Veramente non era una camicia completa: si trattava di una specie di pettorina, formata da un largo colletto collegato a un rettangolo, tenuto unito da un paio di bottoncini.
Sopra la giacchetta, dava l’impressione di una candida camicia, che offriva una parvenza di eleganza.
Quando le processioni si svolgevano all’esterno della cittadella, pareva di sentire i commenti degli spettatori ai lati della strada: commenti che, dietro l’ammirazione, facevano intuire il concetto che perfino degli orfani, vestiti a festa diventavano personcine normali.

Il giovedì pomeriggio, tempo permettendo, era dedicato a una passeggiata all’esterno.
I percorsi, nel lungo periodo di soggiorno, erano ormai diventati abituali.
Se, uscendo, si andava verso sinistra, il fiume era il traguardo della gita.
Se si andava verso destra, cammina cammina, si arrivava a un cumulo di macerie, resti dei bombardamenti della guerra conclusa da pochi anni. 
E su quei resti giocavano; per fortuna senza mai avere incocciato residuati bellici, che avrebbero potuto trasformare la gita in una tragedia.
Di fronte, sicuramente era in programma la visita a qualche basilica, o comunque un posto religioso, di cui per l’ennesima volta avrebbero ascoltato la storia e i miracoli.
Così tra messe, funzioni religiose di ogni tipo, preghiere, scuola, ricreazioni, qualche film, quegli anni stavano passando, tutti uguali, quasi monotoni.

Una monotonia interrotta due volte dalla morte.

Si chiamava Franco, il cognome non lo ricordava; un giorno era stato ricoverato all’ospedale, e per un lungo periodo non lo avevano più visto, tanto da pensare che avesse trovato una famiglia vera che lo avesse adottato.
Poi era ricomparso, era tornato a scuola, in famiglia: aveva un grande fazzoletto legato intorno alla testa, a coprire i capelli.
Che non c’erano più.
Si era fermato poco tempo, poi era tornato in ospedale e da lì non era più rientrato.

Parecchio dopo era toccato a Luigi, il cognome lo ricordava bene, ma il citarlo non aggiungerebbe nulla al suo ricordo: aveva delle piaghe ai piedi, ed era in cura per queste.
Sembrava stesse migliorando.
Invece dopo l’ennesimo ricovero, una mattina aveva chiuso il libro della sua vita e se n’era andato, anche lui.

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