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giovedì 7 ottobre 2010

Medici e pazienti

Da ragazzi, si sa, i malanni, di solito, sono per natura quasi inevitabili.
Pepè non ricordava di avere “fatto” quelli più noti: orecchioni, scarlattina, varicella, morbillo, e altri eventualmente dimenticati.
Il fatto di ritenere di non essere passato sotto quelle forche caudine, era dovuto al preciso ricordo dei suoi contatti col mondo della medicina.
Già i camici, allora bianchi, dei barbieri lo mettevano in agitazione, figuriamoci quelli medici…
Il primo incontro con questi lo aveva avuto in occasione della vaccinazione anti-vaiolo.
A lui e ai compagni avevano scoperto il braccio sinistro e, dopo averlo disinfettato, avevano grattato con una specie di pennino l’esterno del muscolo.
Sulla ferita così provocata, probabilmente, avevano inserito il siero.
Il ‘probabilmente’ era dovuto al fatto che con gli occhi lacrimanti e volti verso la destra, per evitare di vedere lo scempio in atto, non poteva dire con certezza che qualcosa fosse stato immesso.
Garzina, cerotto e, passato il dolore immediato, giorni di prurito sulla ferita, col divieto assoluto di grattare, pena la ripetizione della vaccinazione.
Caduta la crosta formatasi, e asciugata la ferita, era rimasta la cicatrice.
Indelebile, come quella provocata anni prima dal braciere.


L’altro intervento medico era stato l’asportazione delle tonsille.
Non ricorda cosa avesse provocato la decisione, un valido motivo ci sarà stato, ma non ne era a conoscenza.
Ricorda invece perfettamente l’andamento dell’operazione.
Il giorno del ‘sacrificio’, in sala operatoria il chirurgo aveva preso atto che Pepè era troppo minuscolo per riuscire a fermarlo sulla poltrona.
Quindi il fratello laico, Lorenzo, si era seduto prendendolo in braccio, incrociandogli le braccia in modo da evitare eventuali, benché improbabili, gesti inconsulti.
Con un apribocca, una mascherina, una spruzzatina di anestetico gassoso, era andato nel mondo dei sogni.
Senza averlo sentito, essendo sicuramente stato addormentato, ancora per anni gli era frullato per la testa un sinistro “clic- clac” nel ricordo di quell’operazione.
Per il primo giorno dopo il taglio, solo ghiaccio e gelati.
Non fosse stato per il dolore del passaggio nella gola, sarebbe stata una festa bellissima.
Nei giorni successivi, le zuppe di latte e biscotti sarebbero state un’altra grande festa, non fosse che ne aveva mangiate fino alla nausea, fino ad averle in uggia per molti degli anni successivi.


C’era stata un’epidemia di difterite.
Tamponi ficcati in gola a tutti, per cercare i positivi all’esame.
Pepè e altri cinque erano risultati “portatori sani”; per loro si era reso necessario il ricovero in quarantena.
In una infermeria era stato trovato un locale, con un piccolo bagno, e vi erano stati sistemati sei lettini.
Divieto assoluto di uscita ed entrata nella stanza.
Isolamento assoluto.
Iniezione ogni giorno, tampone intermedio di controllo, e tampone finale per fine malattia.
Dalla ‘famiglia’ avevano mandato libri e quaderni, per non restare troppo indietro con le lezioni.
Qualche rivista di fumetti e le “parole incrociate”.
Queste ultime un totale fallimento: aveva ritenuto sufficiente riempire le caselle con parole sensate, solo che le verticali non coincidevano mai con le orizzontali.
Feroci battaglie con i cuscini e piccole liti (per esempio, quando qualcuno stava troppo in bagno, e i ‘bisogni’ diventavano impellenti), aiutavano il passar del tempo.
Per un po’, avevano scoperto un nuovo passatempo, che si preannunciava divertente, con qualche rischio.
Divisa da una grande porta a vetri, sempre chiusa, c’era l’infermeria delle ragazzine; anche loro in isolamento per acciacchi infettivi.
Dopo i primi giorni di segregazione totale, le maglie della sorveglianza, soprattutto la sera, si allentavano un pochino. Le infermiere andavano a cenare o a pregare altrove, e questo consentiva brevi scorribande fuori dalla gabbia.
Scoperta la presenza delle femminucce al di là della porta a vetri, la curiosità di vederle, magari conoscerle, era stata troppo forte.
Ostacolata dal fatto che loro non ne volevano proprio sapere.
Appena vedevano gli incursori avvicinarsi, scappavano gridando l’allarme alla loro infermiera, che arrivava di corsa, imbufalita.
I pionieri erano più veloci, per cui al suo arrivo la cerbera, non trovando nessuno, probabilmente dava delle ‘visionarie’ alle sue pulcine e tornava alle sue faccende.
Le quali pulcine, pur malate, avevano una malignità precoce ìnsita, poiché avevano pianificato un contrattacco degno di migliore causa.
Si mettevano bene in vista, tre o quattro, invitanti all’approccio, consistente più che altro in boccacce reciproche.
Intenti a questo modo di ‘tubare’, ai fantaccini sfuggiva la sparizione, silenziosa, di una delle paperelle, che tornava accompagnata dall’infermiera.
Tuoni, fulmini, saette, sgridate, minacce di segnalazione del ‘delitto’ al prefetto… un finimondo, solo per quattro boccacce.
Che poi, i sei carcerati avevano in comune, nei confronti delle femminucce, la certezza che solo i colori dividessero i maschi dalle femmine: celeste i maschietti, rosa le femminucce.
La scoperta dell’altra, deliziosa, metà del cielo, avrebbe avuto inizio nel tempo, chi più prima chi più dopo, non più in branco, ma con percezioni personali e singole.
A parte la segregazione e le iniezioni, quel periodo aveva evitato ai sei ‘carcerati’ sia le levatacce all’alba che le messe ogni mattina.
Nell’insieme, non un cattivo ricordo…


Un altro indimenticabile contatto con i dottori era avvenuto per una polmonite.
Una domenica sera erano andati al salone cinematografico, per la visione di un film.
Era inverno, faceva un freddo davvero invernale; il salone non aveva riscaldamento. C’era una grande stufa, il cui tubo di scarico dei fumi attraversava tutto il salone, dando una parvenza di calore, più intuitiva che reale.
I ragazzi erano tutti ben coperti da maglioni e cappotti, ma il freddolino, stando fermi, si faceva ugualmente sentire.
A Pepè era venuta la brillante idea di andarsi a mettere nei pressi della stufa.
Lì c’era un gran bel calduccio; tanto calduccio da invogliarlo a togliere il cappotto.
Niente di male, sennonché alla fine del primo tempo, per rinfrescarsi un po’ dal troppo caldo, non avesse avuto l’altrettanto brillante idea di uscire a prendere una boccata d’aria fresca.
Anzi, freddissima.
Ovviamente senza cappotto.
Nella nottata, forti dolori a ogni respiro e la febbre altissima, avevano fatto intervenire i medici dell’ospedale.
Era venuto il primario, accompagnato dal suo vice.
Erano piuttosto buffi: il primario alto e grasso, il suo vice alto e segaligno.
Facevano subito pensare ai filmetti di Gianni e Pinotto…
Per i ragazzi, a parte la camicia ed eventuale maglione, non erano previste magliette o canottiere.
In occasione di visite mediche, forse per evitare rimbrotti da parte dei dottori, veniva fatta indossare una maglietta “di sotto”.
Un fazzoletto immacolato sulla schiena, per evitare il freddo dello stetoscopio, e diagnosi immediata: polmonite.
Ricovero, iniezioni a volontà, compresse…
Anche qui il vantaggio di saltare le messe e poter dormire di più la mattina.
E niente libri e quaderni.
Gli è rimasto in mente un medicinale, forse un ricostituente, un cucchiaio al giorno.
L’odore era di anice, uno dei pochi liquori che nel corso dell’esistenza non ha mai più amato, neanche travestito da Pernod.

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