Powered By Blogger

mercoledì 11 agosto 2010

La famiglia

La cittadella era divisa in settori, detti famiglie.
Quella di Pepè era la famiglia dei Giuseppini.
Ma i ragazzi erano più noti come 'fratini'.
Come 'piccoli frati'.
Forse con la speranza che, alla fine della scuola, qualcuno si affezionasse, o ricevesse la vocazione, per restare al servizio di altri poveretti come loro.
A conoscenza di Pepè, nel lungo periodo di permanenza e anche dopo, uno solo aveva raccolto l'invito e, raggiunta l'età, aveva indossato la tonaca di 'fratello'.
Protettore di questa famiglia era san Giuseppe.
Il percorso scolastico prevedeva dalla terza elementare alla quinta.
Quasi adiacente c'era la famiglia dei luigini.
Ovviamente protettore san Luigi.
Comprendeva l'ultimo periodo della scuola materna e la prima e seconda elementare.
Con l'inizio ufficiale dell'anno scolastico, era iniziata la cadenza di un modulo di vita che si sarebbe ripetuta, uguale, negli anni successivi.
Sveglia al mattino, per alcuni molto presto, e più avanti racconterà il perché, messa, colazione (di cui ha già accennato), breve ricreazione, scuola.
Il pomeriggio aveva inizio con il pranzo, poi ricreazione nel cortile (d'inverno o con il tempo brutto nel ricreatorio); seguiva il rientro in aula, l'interruzione per la cena, ancora ricreazione fino all'ora di andare a letto.
Nel palazzo non esisteva l'acqua calda.
L'inverno, piuttosto gelido, spingeva a lavarsi soltanto gli occhi, bagnando velocemente i polpastrelli degli indici e limitando la pulizia alle impurità notturne delle palpebre.
Il riscaldamento, in tutti i locali, era dato da enormi termosifoni, alimentati da una grande caldaia a carbone, situata in un locale apposito, nello stesso piano del refettorio, nella parte sotterranea.
Un addetto esterno, quando ancora era notte, faceva il giro delle caldaie da accendere o da ravvivare, in modo da dare calore ai termosifoni prima della levata dei ragazzi.
La mancanza di acqua calda per lavare le stoviglie, era sopperita con l'invio di due ragazzi, quelli più robusti, che con un mastello si recavano, mezzogiorno e sera, a prelevarla da un grosso rubinetto, che la erogava giorno e notte, collegato a una lavanderia in continua attività.
A periodi non prestabiliti, la stessa operazione di trasporto dell'acqua era necessaria quando si dovevano lavare i piedi: c'erano lunghe vaschette di legno con l'interno in lamiera, affiancate da basse panchine, sempre in legno, con cinque o sei ragazzi per parte che tuffavano i piedi, tutti insieme, in queste bagnarole.
Naturalmente le spruzzate vicendevoli facevano parte del rito del lavaggio.
Interrotte dagli assistenti quando superavano i limiti di un gioco, o quando scoppiavano le liti per l'esagerazione di questo.
Il momento più temuto dopo il lavaggio dei piedi era il taglio delle unghie.
Questa operazione era affidata alle suore.
Che, vuoi per l'età vuoi per lenti inadeguate, ogni volta riuscivano a tagliare, con le unghie, anche la pelle circostante.
Sangue, alcol (c'era solo quel disinfettante), un cerotto...
E addio pallone per qualche giorno.
Come vestiario, la dotazione era molto semplice.
Ai piedi un paio di zoccoli di legno, con la tomaia a coprire il collo del piede e le caviglie; chiusa da legacci passanti negli occhielli.
Mutande, un po' alla buona, pantaloncini corti, una camicia.
D'inverno un maglione da mettere sopra la camicia.
Niente canottiere o magliette 'di sotto'.
Ogni tanto c'era il cambio della biancheria 'intima' e della camicia.
Più raramente quello del cambio del pantalone, a meno di strappi o sporcizia (terra, fango, erba o altro) evidenti.

Nessun commento:

Posta un commento