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sabato 8 gennaio 2011

La sorella e il lavoro

In questo periodo di attesa per un futuro nebuloso, la novità più importante era stato l’arrivo della sorella.
Una sorella della cui esistenza era completamente all’oscuro.
Era più grande di lui di alcuni anni.
La sua vita era stata quasi un parallelo della sua, solo che lei era stata mandata in un vero orfanotrofio, specifico femminile.
Pepè non si spiegava come mai, in tanti anni (che forse tanti non erano, ma erano stati talmente lunghi che gli pesavano come secoli), non ci fossero stati contatti di alcun genere con lei.
Ma nella poca vita vissuta fino ad allora era diventato quasi fatalista: evidentemente da qualche parte era scritto che così doveva essere.
Non ricordava di avere provato una particolare emozione in quell’incontro. Forse perché il sapere di non essere più solo non avrebbe cambiato di molto la sua situazione.
Lei era appena uscita dal collegio, ed era in transito solo per conoscere suo fratello, e proseguire poi per andare ‘a servizio’ in una grande città, lontana da quella di residenza del fratellino ritrovato.
Evidentemente in quel collegio le avevano insegnato più cose che a lui nell’ospizio, perché andando verso l’ignoto aveva gli occhi abbastanza aperti da non temerlo.
Probabilmente gli aveva parlato della mamma, e forse anche del padre, ma l’abitudine ad esserne privo aveva creato nella sua mente una specie di patina, su cui quelle notizie scorrevano, come scorre la pioggia su una tomba di marmo.
Aveva parlato col prefetto del futuro di Pepè, di cosa fosse possibile fare per avviarlo su qualcosa di utile per quando fosse stato indipendente.
Sul posto c’erano solo tre possibilità, tre laboratori dove poter fare una specie di apprendistato.
C’era la legatoria, di cui aveva parlato in un capitolo precedente.
Gestita dagli invalidi, era molto rumorosa, piena di macchinari, di collanti e inchiostri. Inoltre difficilmente avrebbe dato quella completezza di mestiere necessaria per essere indipendente con un raggio operativo più ampio: si sarebbe dovuto specializzare in un ramo specifico, ma tutti si basavano su macchinari che la sua età non avrebbe consentito di usare.
C’era la calzoleria, che prevedeva un lungo tirocinio di riparazioni prima di arrivare alla confezione totale delle calzature.
La vita lo aveva abituato a non essere schizzinoso, ma il pensiero di maneggiare scarpe rotte, quindi usate, non lo affascinava.
Restava solo la sartoria, che presentava meno pericoli e appariva più pulita delle altre due attività.
E così la scelta, quasi obbligata e comunque senza alternative, era caduta su quel laboratorio.
Ottenuta quella sistemazione, la sorella aveva proseguito il suo cammino, lasciandogli il recapito della famiglia presso cui si recava a lavorare.
Aveva cominciato a frequentare il laboratorio in modo sporadico, più che altro per prendere visione di un mondo nuovo, un mondo di cui conosceva l’esistenza, visto che i vestiti in qualche posto, e in qualche modo, dovevano per forza essere confezionati.
Nel laboratorio c’era il capo della sartoria, l’insegnante: aveva una certa età, una calvizie avanzata, e un bel po’ di pancetta. Era un tipo piuttosto taciturno, spiegava le cose in modo spiccio, e lasciava che gli apprendisti imparassero a cavarsela da soli dopo avere ascoltato i suoi indirizzi.
Durante la guerra era stato prigioniero in un campo di concentramento in Inghilterra. Per farlo parlare bastava buttargli, volutamente, un accenno a quel periodo, e la sua parlantina si scioglieva in racconti, che potevano essere anche frutto di fantasia, ma che per i ragazzi erano storie di vita vissuta, di cui non avevano motivi di dubitare.
Aveva anche un aiutante, parecchio più giovane di lui, che integrava la sua teoria con l’applicazione pratica.
La prima cosa da imparare era stata il modo di tenere l’ago e l’uso ottimale del ditale.
Nei primi tempi, poiché la piegatura del dito medio, necessaria per sospingere l’ago nella stoffa, era difficoltosa, si ricorreva alla sua tenuta nella piega dovuta con una fettuccia, che sarebbe stata abbandonata solo dopo averne acquisito la naturalezza nell’uso.
La frequenza della sartoria gli aveva evitato il finale della seconda messa in chiesa grande; restava la levataccia prima dell’alba, per il servizio nelle infermerie, ma aveva trovato un sistema per rimediare almeno un’oretta di sonno, al rientro da quell’incombenza quotidiana.
C’era una stanza, che era adibita agli incontri dei vari gruppi di ragazzi iscritti all’Azione Cattolica; in pratica tutti, divisi in ‘villaggi’, corrispondenti alla classe frequentata.
Così la terza erano gli Infanti, la quarta i Leali, la quinta gli Intrepidi. Con un inno in comune, che sommariamente descriveva l’attività di ciascun villaggio nei confronti degli altri.
Qui si svolgevano ripassi del catechismo e si provavano gli inni per le funzioni, che Pepè eseguiva in religioso, è il caso di dirlo, silenzio per via della sua negazione cronica di qualunque forma di musicalità. Come detto in precedenza, il prefetto aveva rinunciato al suo apporto al coro, tenendolo sotto osservazione affinché non disturbasse gli altri con improvvide entrate canore.
In questa stanza, oltre a una scrivania e un piccolo organo, c’erano due armadi a muro, gemelli, divisi su tre piani.
Uno, nella parte centrale, ospitava una piccola biblioteca, con vecchi libri di scuola e romanzi di avventura, attentamente visionati dal prefetto prima di esservi riposti. La parte superiore e quella inferiore erano una specie di ripostiglio, con teli, carte, attrezzi per la scuola…
L’altro armadio, al centro conteneva la farmacia, con medicinali di pronto intervento (compresa la bottiglietta di marsala all’uovo, che contribuiva come poteva ad alleviare la solitudine di Pepè).
L’armadietto inferiore misurava meno un metro di larghezza per circa settanta centimetri di altezza, con una profondità di una cinquantina di centimetri.
In effetti si trattava più di un buco che di un armadietto; ma debitamente svuotato era diventato una bella alcova in cui si rifugiava al rientro dal servizio della messa. Ci si raggomitolava, le braccia appoggiate alle ginocchia, su queste la testa e, pur non profondi come nel letto, ogni mattina erano bei sonnetti.
Si tirava dal di dentro gli sportelli, e al prefetto, che ogni tanto lo cercava, non era mai venuto in mente di cercarlo là dentro.
E meno male, altrimenti forse oggi non sarebbe presente a raccontare quest’impresa, di cui, nonostante il lontanissimo passato, è ancora orgoglioso.
Quando gli diceva di averlo cercato invano, le scuse erano abbondanti: probabilmente era in bagno, oppure era in refettorio ad aiutare la suora, o la messa servita al mattino aveva subito un ritardo imprevisto per problemi connessi alla messa nell’infermeria…
Pur sapendo del proverbio sulle gambe corte delle bugie, le sue le aveva sempre trovate con le gambe lunghe, abbastanza da non essere scoperto.
Anche i proverbi, evidentemente, concedono delle eccezioni.

giovedì 9 dicembre 2010

Sessualità

C’è un momento nella vita di ogni adolescente, in cui l’interesse, già relativo, per l’italiano, la geografia, l’aritmetica, la storia e le altre materie spicciole della scuola primaria, viene ulteriormente attenuato dall’incombere di una materia, che all’inizio si presenta come pura curiosità, ma in seguito diventa voglia prepotente di conoscenza, la più ampia possibile.
Il sesso: nelle sue forme fisiche, nei suoi sviluppi, nelle sue reazioni.
Per un adolescente fuori dalla cittadella di stazionamento di Pepè, la conoscenza di questa materia era relativamente facile, almeno nei primi rudimenti.
C’erano sempre un padre, una madre, uno zio, una parente, che riuscivano a trovare le parole per raccontare il miracolo del sesso.
Nonostante la frequentazione, era, per sentito dire negli anni successivi, comunque un discorso imbarazzante e non facile per chi prestava la consulenza.
Tra i maestri c’erano anche alcuni sacerdoti, molti anni dopo accantonati poiché dopo la teoria pare tendessero a proporre la pratica diretta sul campo.
All’interno della cittadella il sesso era qualcosa di innominabile, un termine sconosciuto, abominevole, tabù.
Pepè, dall’ospizio in poi, non aveva avuto maestri per quella disciplina: per i vecchietti, le suore degli inizi della sua vita (fin qui abbastanza giustificati), poi le altre che affiancavano la sua crescita, il prefetto, gli assistenti, era una materia inesistente.
Ed era così anche per i compagni.
Con questi c’era uno scambio di informazioni reciproche ma soggettive, motivo di scontri sui diversi punti di vista in merito.
Uno dei primi accenni alla ‘diversità’ tra maschi e femmine era venuto da Cristiano, un compagno che era andato da parenti in campagna.
Al rientro, in tutta segretezza, aveva confidato che le ‘femmine’ al posto del pesciolino avevano uno spacchetto simile a quello dei chicchi di grano.
Era stata una comunicazione importante, che però aveva aperto la strada a varie congetture.
Intanto, il fatto di avere parlato di ‘femmine’ faceva pensare che l’imbeccata gli fosse stata data riferita a qualche animale, femmina, della fattoria.
Femmina e ‘donna’ erano la stessa cosa?
Le donne da loro conosciute, a cominciare dalla Madonna, erano tutte sante: di esse si vedevano la faccia, le mani, talvolta i piedi, ma null’altro che facesse pensare a una loro possibile femminilità.
Dei maschietti si conosceva più o meno l’esterno, dai confronti fugacemente visivi dopo la doccia, ma erano solo una presa d’atto che tutti avevano quel pendicolo, che fino a prova contraria era destinato solo a fare i ‘bisogni piccoli’ (così era definita la pipì); inoltre il confronto si estendeva a qualche Bambin Gesù nudo in braccio a qualche Madonna, e ai putti che adornavano le ascese in cielo dei santi: tutti col loro bel pirillino, che confermavano l’esistenza dei maschietti anche in cielo.
Putti con ‘chicchi di grano’ non ne esistevano, almeno per rendersi conto di come fossero sistemati.
A Pepè era capitato di vedere una donna completamente nuda, ma in una situazione che non ne consentiva un ricordo razionale.
Era successo in colonia; c’era il mare molto agitato, e in lontananza, vicino a un tratto roccioso della spiaggia, aveva notato uno strano movimento di persone, visibilmente agitate.
Era corso anche lui, pensando alla pesca di qualche pesce bizzarro o fuori misura.
Invece si trattava di una donna che, poveretta, era scivolata in mare; i marosi l’avevano sbattuta più volte contro gli scogli, forse uccidendola da subito.
Però i soccorritori, nel tentativo di salvarla, le avevano tolto tutti gli indumenti, praticando tentativi di respirazione artificiale.
Il corpo era completamente viola dal freddo, con chiazze più pronunciate qua e là, dovute al batti e ribatti contro le rocce.
Prima di distogliere lo sguardo inorridito aveva fatto in tempo a vederne il seno e un triangolo di peli scuri in mezzo alle gambe; nient’altro.
E comunque all’epoca di quel fatto non era ancora entrato nella fase di studio di quella materia, per cui il ricordo si fermava al rimpianto per quella poveretta.
Già il riuscire a sapere come nascevano i bambini era un’impresa quasi impossibile.
Per esempio: in apertura di un film c’era stato un documentario di attualità, muto e in bianco e nero, forse della Settimana Incom o dell’Istituto Luce.
Mostrava una lunga vetrata, con diverse persone che guardavano all’interno di una grande, luminosa stanza; al di là della vetrata si vedevano delle ragazze, vestite di bianco, con la crestina con velo delle infermiere di allora, che ‘maneggiavano’ ciascuna un neonato, tra fumi di talco e fasce.
Le persone al di qua della vetrata puntavano un dito, or qua or là, visibilmente commentando.
Tanto era bastato per pensare che, da qualche parte, si ‘facevano’ i bambini e che le persone di qua dal vetro sceglievano, tra quelli in esposizione, il più adeguato ai loro desideri.
Le discussioni in merito a questa interpretazione avvenivano tra chi era a favore di questa tesi e chi la avversava.
Ma chi la avversava non aveva alternative da proporre, per cui era come il tifo per Coppi o Bartali, allora in auge: ciascuno teneva la propria convinzione.
Per mandare ancora più in confusione ci si era messa anche l’Ave Maria.
Il “fructus ventris tui” inserito in quella preghiera era tradotto nella versione italiana “frutto del seno tuo”; al di là del fatto che se anche fosse stato, giustamente, tradotto “frutto del ventre tuo” non avrebbe chiarito il mistero della nascita; per i ragazzi, che non sapevano di latino, ‘ventre’ e ‘seno’ apparivano come un tutt’uno, e il ‘seno’ era ritenuto una esigenza di traduzione.
Con un dolore dalle parti dell’ombelico, a nessuno sarebbe venuto in mente di dire ‘ho mal di ventre’: era per tutti un ‘mal di pancia’, dalla cintola in giù.
Questa nebbia sessuale era diventata ossessiva.
Una notte Pepè si era svegliato di soprassalto, ritenendo di avere bagnato il letto.
Forse aveva sognato di essere andato in bagno e di averla fatta in sogno nel gabinetto.
Col terrore di venire inserito nei bagnaletto (con la conseguente esposizione delle mutande), si era affrettato a tamponare con il lenzuolo sia le mutande bagnate che il lenzuolo di sotto inumidito.
Al mattino aveva fatto di corsa il letto, con la speranza che in giornata si sarebbe asciugato; le mutande, invece, si sarebbero asciugate addosso.
Non gli era mai capitato, neanche da piccolo, e questa novità lo aveva stordito per tutto il giorno.
Coricandosi, alla sera, aveva allungato la mano verso il luogo della fuoruscita del liquido: era asciutto, meno male, ma il lenzuolo, lì, sembrava diventato di carta, così come le mutande sul davanti.
Solo molto tempo dopo avrebbe scoperto che esiste una specie di reazione fisiologica detta ‘polluzione’, di solito notturna.
Negli scambi di informazioni era emerso che anche ad altri compagni era successa la stessa avventura.
Da uno più esperto era anche venuta l’indicazione che quella ‘polluzione’ poteva essere anche diurna, o comunque sollecitata.
Poiché qualunque cosa toccasse il sesso era ritenuta peccato, quel sollecito era divenuto oggetto di confessione.
Pepè non ricorda con quale espressione descriveva quella manipolazione; forse con “mi sono toccato”, e tanto al sacerdote bastava per capire di cosa si parlava.
Ma non doveva essere catalogato come ‘peccato grave’, visto che la pena consisteva nei soliti tre Pater Ave Gloria, la stessa di prima di questo nuovo atto peccaminoso.
Il resto della scoperta del mondo del sesso era poi venuto, lentamente, nel tempo.
Fino all’apprezzamento della ‘femminilità’ di alcune giovani suore, veramente carine.
Apprezzamenti purtroppo sempre caduti nel vuoto…
Lo stato di segregazione forse aveva contribuito ad evidenziare una spiccata arretratezza nella scoperta di una materia così importante nella vita; certamente neanche lontanamente paragonabile alla situazione odierna.
Come in moltissime altre cose, con lo scorrere degli anni, si era passati dal ‘nulla’ al ‘troppo’.
Le vie di mezzo erano scomparse, come le stagioni.

lunedì 22 novembre 2010

Crescere, piano piano...

La scuola era finita.
La quinta elementare era allora il primo diploma necessario per entrare nel mondo del lavoro.
L’esame era stato seguito da un insegnante esterno, forse mandato dal Provveditorato per sancire la regolarità delle prove.
Probabilmente questi le aveva seguite con un occhio di riguardo alla situazione dei ragazzi che doveva esaminare.
Infatti, né in quell’anno appena finito né in quelli precedenti, c’erano stati bocciati o rimandati.
Al termine del ciclo scolastico obbligatorio, le strade possibili erano solo due.
Le famiglie, quelle vere, venivano a ritirare i ragazzi, indirizzandoli poi dove le possibilità consentivano: chi poteva faceva proseguire gli studi altrove, almeno fino alla licenza media; gli altri venivano parcheggiati presso qualche laboratorio artigianale, per imparare un mestiere.
All’interno ci sarebbe stata la possibilità di studiare almeno fino al livello successivo, a condizione di avere la ‘vocazione’ e proseguire gli studi presso un piccolo seminario adiacente: infatti era un primo approccio per essere poi avviati a un vero seminario, per tentare di diventare sacerdoti.
Nonostante gli anni pieni zeppi di messe, funzioni in chiesa, processioni, vespri, preghiere, la ‘vocazione’ non era arrivata.
Anzi, forse proprio a causa di questi eccessi, non si era proprio sentito ‘vocato’.
D’altra parte, nessuno si era presentato a ‘reclamarlo’; nessuno, neanche con una cartolina, aveva fatto mai pensare che qualcuno all'esterno fosse interessato alla sua uscita da quel mondo.
Così era rimasto lì, come parcheggiato, in attesa degli eventi.
Forse il prefetto aveva accarezzato l’idea, in assenza della vocazione sacerdotale, di indirizzarlo a un servizio laicale, come fratello.
Minuscolo come corporatura, troppo giovane come età, avrebbe dovuto crescere ancora un po’ nell’una e nell’altra, per poter essere immesso nella famiglia che provvedeva alla preparazione dei fratelli per il servizio sul campo.
Nell’attesa era diventato una specie di segretario del prefetto: commissioni in giro per la cittadella, piccoli acquisti in uno spaccio interno, più che altro di frutta, assistenza a piccole riparazioni…
Cura della piccola farmacia interna: medicine, bende, garze, cerotti, si ritiravano in una vera farmacia, situata in locali sotto la chiesa grande.
Non aveva mai saputo perché tra i medicinali fosse inclusa una bottiglietta di marsala all’uovo.
Veramente non se lo era neppure chiesto: era talmente buona che, sorso dopo sorso, finiva molto presto; con l’alcool denaturato, destinato alle sbucciature da pallone, era la ‘medicina’ che richiedeva gli adeguamenti più frequenti.
In quel periodo aveva avuto modo di girare un po’ dappertutto, imparando l’ubicazione dei vari servizi che tenevano in vita un complesso così vasto.
Così l’enorme cucina centrale, con grandissimi pentoloni e la ruota laterale per poterli manovrare, e un via vai continuo delle suore addette, per lui non aveva segreti.
La lavanderia, anche qui con grandi macchine sempre in funzione per lavare migliaia e migliaia di lenzuola e capi di vestiario, con suore specifiche dedite a quel compito.
E la panetteria: anche questa a sfornare pane in continuazione; era tutta automatizzata, e le suore addette, durante il giorno, erano in numero minore che nelle altre attività. In un lungo bancone rotante, insaccavano pagnotte dentro sacchi di corda, a seconda delle necessità e delle richieste pervenute dai vari settori del complesso.
C’era poi un reparto di manutenzione, curato da persone esterne, operai salariati: falegnami, idraulici, elettricisti, muratori…
In caso di necessità di intervento, dalle famiglie o dalle infermerie partiva la richiesta di aiuto, e i problemi erano risolti in tempi accettabili.
Il suo ‘servire messa’ lo aveva portato a visitare tutti i locali dotati di questo servizio religioso.
Se qualche ragazzo non si sentiva bene, magari fingendo per ritardare un po’ la sveglia, Pepè lo sostituiva senza bisogno di dare indicazioni: bastava dire il santo o la santa protettori di quel locale, e ci andava ormai a occhi chiusi.
Il prefetto, in quel periodo, aveva acquistato (o gli avevano regalato) un proiettore portatile per trasmettere film.
Si trattava di una Micron XXVI, 8 o 16 millimetri, questi non li ricordava bene.
I film si prendevano a nolo presso alcuni distributori in città, oppure da una parrocchia vicina, con una sala cinematografica.
Il prelievo e il riporto delle pellicole erano compito di Pepè.
Erano dentro speciali valigette quadrate, che, in mano a uno scriciolo, attiravano sovente l’attenzione dei passanti, e talvolta dei carabinieri, che ogni tanto lo fermavano per sapere cosa contenesse quel bagaglio.
Saputa la provenienza e la destinazione non indagavano oltre e lo facevano proseguire nella missione.
Un po’ per volta, Pepè era uscito da solo dalla cittadina, era salito per la prima volta su un tram, aveva preso dimestichezza con l’attraversamento delle strade e sulla funzione dei semafori.
Tutte cose nuove, insieme alle vetrine dei negozi, contro cui schiacciava il naso per meglio curiosare all’interno.
Grandi novità da mettere in un ipotetico zaino delle sue esperienze.
Con un carrettino a due ruote, portava questo proiettore e gli accessori dovunque fosse stata concordata una proiezione (in altre famiglie, talvolta anche nelle infermerie) che non avevano la possibilità di accedere al salone descritto nei capitoli precedenti.
Poco per volta aveva imparato a montare da solo tutto l'apparato, farne i collegamenti e perfino a montare le pellicole nei loro percorsi dentati: la partenza della proiezione la dava il prefetto quando era tutto pronto.
A forza di vederlo così autonomo, la richiesta di andare a presentare i film, in determinate occasioni e con altrettanto determinati film, sovente passava da Pepè, per la maggiore possibilità di vederlo in giro per commissioni.
Richieste che trasmetteva al prefetto.
Ovviamente da questi giri, non rientrava mai a mani vuote. Addirittura ogni tanto raccoglieva anche qualche lira.
Sovente gironzolava per fatti suoi, la curiosità lo portava anche in zone poco frequentate; in particolare una specie di discarica di vecchie radio, strani attrezzi ormai in disuso, materiale elettrico semidistrutto: gli piaceva rovistare, alla ricerca di qualunque oggetto, o parte di oggetto, che attirasse la sua attenzione.
C’erano un paio di persone addette alla selezione di quel materiale, e a loro chiedeva spiegazioni su tutto.
Forse stupiti dalla curiosità di un ragazzino verso questi materiali, non rifiutavano di erudirlo e passargli i pezzi che più lo attiravano.
Così, per esempio, era riuscito a costruire una radio galena, con tanto di antennina, manopola di ricerca delle poche stazioni disponibili e un minuscolo altoparlante.
La ascoltava la sera, completamente sotto le coperte; all’esterno si sentiva una specie di ronzio, e là sotto bisognava continuamente cercare la stazione, che andava e veniva, regolando di volta in volta il volume.
Ascoltava, fino a che il sonno vinceva e l’ascolto continuava nei sogni.
Tutto quanto apprendeva lo metteva nel famoso zainetto delle esperienze.
Però come fosse riuscito a fare quella radiolina, è rimasto un mistero, disperso dal vento degli anni.

lunedì 25 ottobre 2010

Margherite con le spine

Di solito sono le rose che s’accompagnano alle spine.
Ma di rose, Pepè, nel suo cammino non ne aveva trovate.
Qualche margherita, forse, ma cercandola per bene, non con la classica lanterna, bensì con una buona lente d’ingrandimento.
Le spine, invece, erano state abbondanti; e perfino quelle poche margherite riuscivano ad averle.
Forse la gestione di ottanta-novanta ragazzi richiedeva una buona dose di capacità organizzative, sicuramente disciplinari.
I pochi anni trascorsi dal termine di un conflitto che aveva dilaniato il mondo, e di cui i ragazzi sentivano solo i rimbalzi, attutiti da una forma di pudore spontaneo da chi quegli anni aveva vissuto, avevano lasciato tracce, difficili da cancellare in così poco tempo.
Una di queste tracce era l’ordine a tutti i costi.
La disciplina, ferrea come si usava dire, era uno di questi costi, un retaggio di quel recente passato, ed era applicata con costante attenzione.
In classe, l’essere relegati dietro la lavagna perché sorpresi a copiare o chiacchierare, era punizione quotidiana.
E, di solito, terminava con la fine delle lezioni.
Talvolta, in caso di male risposte, il ‘delitto’ finiva al prefetto.
E da lui non arrivavano solo sgridate; purtroppo erano botte, belle e buone.
Nel suo ufficio aveva una bacchetta quadrata, un centimetro di lato, e la usava sul dorso delle mani, che dovevano essere ben stese, per accogliere meglio la battuta.
Il ritiro, automatico nel tentativo di salvataggio, comportava il raddoppio della punizione.
Chi usciva da quelle ‘lezioni’, lo faceva con gli occhi gonfi di pianto e le mani paonazze, talvolta sprizzanti sangue.
In genere, però, le punizioni consistevano in qualche schiaffone o un calcio nel sedere.
Farsi pescare a tavola a parlare, voleva dire rischiare di finire con la faccia nel piatto, per uno schiaffo improvviso e inatteso.
Durante le ricreazioni, i litigi erano frequenti, o per un intervento pesante giocando al pallone o per un’offesa verbale non accettata.
In quei casi interveniva l’assistente, che prima divideva i litiganti a suon di ceffoni, poi cercava di sapere ‘chi aveva cominciato’: non che avesse grande importanza, poiché alla fine dava un supplemento a entrambi, destinandoli agli estremi del cortile per evitare recidive.
Questo tipo di castigo lasciava un po’ il tempo che trovava, poiché calci nelle gambe, gomitate, qualche pugno nelle fasi di gioco, rendevano quasi coriacei alle ulteriori botte.
Gli assistenti, di solito, erano due: un ‘fratello’ laico e un chierico, che studiava nel vicino seminario.
Muniti entrambi di un fischietto, per le chiamate collegiali.
Questo fischietto era legato a una specie di catenella, forse per limitare i rischi di caduta a terra o di perdita.
Il chierico aveva una sua etica: mai mettere le mani addosso a un ragazzo.
Quindi, nei suoi interventi, affidava alla catenella il compito di risolvere le situazioni.
La faceva roteare facendola andare a battere, se possibile sulle mani, ma in casi estremi anche sul collo o sulle gambe, che i calzoni corti lasciavano scoperte.
Pepè aveva parlato in precedenza dei ‘bagnaletto’, e forse aveva dato l’impressione, volutamente, che il fatto finisse lì.
Non era così: chi nella notte, per disattenzione o per debolezza, aveva bagnato il letto, sapeva già quale era la sua punizione.
Alle ricreazioni, dopo pranzo e dopo cena, il ‘colpevole’ si doveva presentare con una specie di fazzoletto in testa.
Quel fazzoletto erano le mutande, bagnate con il letto la notte precedente.
Al pomeriggio erano già asciutte, o quasi; in teoria avrebbe dovuto essere una punizione psicologica, per insegnare al colpevole che bagnare il letto non era cosa buona.
Ma anche questa, alla fine, diventava una punizione simbolica, perché il punito entrava tranquillamente nei giochi con i compagni, e la sua ‘bandana’ non era oggetto di repulsione, tanto meno di disprezzo.
La sera, inoltre, quando tutti erano andati a letto, doveva aspettare ai piedi del letto il segnale per poter andare a dormire.
Che talvolta arrivava molto tardi, o perché il prefetto rientrava a tarda notte o perché se n’era dimenticato.
Se lo scopo era di umiliare con la speranza di ‘redimere’, questo falliva regolarmente, sia dal lato psicologico che da quello pratico.
Chi aveva questa debolezza non guariva con questo tipo di cura.
C’erano poi le punizioni prettamente psicologiche.
Ogni tanto c’era la proiezione di diapositive, solitamente a carattere religioso, e il punito doveva stare con la schiena verso lo schermo, ascoltando le spiegazioni dei fotogrammi senza poterli vedere.
Ma queste erano talmente ripetitive, che il non vederle lasciava assolutamente indifferenti.
Diverso il discorso per i film, sempre con la schiena rivolta allo schermo: se erano racconti religiosi, la perdita era relativa. Talvolta, però erano di avventura, e allora un po’ di dispiacere ci scappava.
Insomma, non era inferno, tanto meno paradiso.
Neppure limbo.
Era… così.

giovedì 14 ottobre 2010

Feste comandate

Le domeniche e le feste comandate, nei pomeriggi, dopo un’adeguata istruzione, il compito di Pepè era fare il telefonista.
All’entrata della cittadella c’era un centralino, presidiato da una suora, che verificava le entrate dei visitatori, e provvedeva a chiamare il numero della famiglia richiesto per invitare gli interessati in parlatorio.
Che era sistemato in una grande stanza, munita di sedie e tavoli, sufficienti per un buon numero di visitatori.
Questa entrata, questo centralino e questo parlatorio erano destinati ai reparti maschili.
Per quelli femminili, tutto l’apparato era altrove.
L’apparecchio telefonico, nella famiglia di Pepè, era piazzato in un angolo del dormitorio.
Nero, attaccato al muro, naturalmente a quella che si dice ‘altezza d’uomo’.
Pepè, oltre a non essere ancora un uomo, anche ad altezza lasciava a desiderare.
Sotto l’apparecchio, un tavolinetto e una sedia.
Pepè era stato preferito ad altri per quel compito, perché c’era la fondata certezza che nessuno lo avrebbe mai cercato.
Era diventato un posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ad ogni squillo doveva alzarsi per rispondere, perché da seduto non arrivava allo stacco della cornetta.
In seguito aveva attaccato alla forcella uno spago, al cui termine aveva legato un piccolo peso, una pietra; con la cornetta appoggiata sul tavolino, era sufficiente sollevare il peso, e rispondere direttamente.
Insieme a lui c’era un compagno, con il compito di messaggero: ad ogni chiamata andava a scuola o nel cortile per avvisare della visita.
Il tempo lo passavano leggendo o facendo le corse lungo i letti. Il dormitorio era abbastanza lungo da consentire belle galoppate.


Nelle feste ‘grandi’ le processioni erano d’obbligo.
Se capitavano nel periodo invernale, non era necessario vestirsi a festa: un tabarro nero copriva ampiamente i vestiti di tutti i giorni.
Ad alcuni arrivavano a mezza gamba; quello di Pepè copriva quasi fino alle caviglie.
Invece degli zoccoli si mettevano le scarpe e la trasformazione era completata.
Sempre d’inverno, con quelle mantelle si divertivano a correre nel cortile, facendole aprire a vela, come i cavalieri o i vampiri visti in qualche film.
Oppure facendo lunghe scivolate su strisce di cortile, opportunamente allagate la sera, per trovarle al mattino completamente ghiacciate.
Quando le processioni cadevano in periodi più caldi, avevano una giachetta blu, con il bavero e il colletto coperti da una camicia bianca, aperta sul collo.
Veramente non era una camicia completa: si trattava di una specie di pettorina, formata da un largo colletto collegato a un rettangolo, tenuto unito da un paio di bottoncini.
Sopra la giacchetta, dava l’impressione di una candida camicia, che offriva una parvenza di eleganza.
Quando le processioni si svolgevano all’esterno della cittadella, pareva di sentire i commenti degli spettatori ai lati della strada: commenti che, dietro l’ammirazione, facevano intuire il concetto che perfino degli orfani, vestiti a festa diventavano personcine normali.

Il giovedì pomeriggio, tempo permettendo, era dedicato a una passeggiata all’esterno.
I percorsi, nel lungo periodo di soggiorno, erano ormai diventati abituali.
Se, uscendo, si andava verso sinistra, il fiume era il traguardo della gita.
Se si andava verso destra, cammina cammina, si arrivava a un cumulo di macerie, resti dei bombardamenti della guerra conclusa da pochi anni. 
E su quei resti giocavano; per fortuna senza mai avere incocciato residuati bellici, che avrebbero potuto trasformare la gita in una tragedia.
Di fronte, sicuramente era in programma la visita a qualche basilica, o comunque un posto religioso, di cui per l’ennesima volta avrebbero ascoltato la storia e i miracoli.
Così tra messe, funzioni religiose di ogni tipo, preghiere, scuola, ricreazioni, qualche film, quegli anni stavano passando, tutti uguali, quasi monotoni.

Una monotonia interrotta due volte dalla morte.

Si chiamava Franco, il cognome non lo ricordava; un giorno era stato ricoverato all’ospedale, e per un lungo periodo non lo avevano più visto, tanto da pensare che avesse trovato una famiglia vera che lo avesse adottato.
Poi era ricomparso, era tornato a scuola, in famiglia: aveva un grande fazzoletto legato intorno alla testa, a coprire i capelli.
Che non c’erano più.
Si era fermato poco tempo, poi era tornato in ospedale e da lì non era più rientrato.

Parecchio dopo era toccato a Luigi, il cognome lo ricordava bene, ma il citarlo non aggiungerebbe nulla al suo ricordo: aveva delle piaghe ai piedi, ed era in cura per queste.
Sembrava stesse migliorando.
Invece dopo l’ennesimo ricovero, una mattina aveva chiuso il libro della sua vita e se n’era andato, anche lui.

giovedì 7 ottobre 2010

Medici e pazienti

Da ragazzi, si sa, i malanni, di solito, sono per natura quasi inevitabili.
Pepè non ricordava di avere “fatto” quelli più noti: orecchioni, scarlattina, varicella, morbillo, e altri eventualmente dimenticati.
Il fatto di ritenere di non essere passato sotto quelle forche caudine, era dovuto al preciso ricordo dei suoi contatti col mondo della medicina.
Già i camici, allora bianchi, dei barbieri lo mettevano in agitazione, figuriamoci quelli medici…
Il primo incontro con questi lo aveva avuto in occasione della vaccinazione anti-vaiolo.
A lui e ai compagni avevano scoperto il braccio sinistro e, dopo averlo disinfettato, avevano grattato con una specie di pennino l’esterno del muscolo.
Sulla ferita così provocata, probabilmente, avevano inserito il siero.
Il ‘probabilmente’ era dovuto al fatto che con gli occhi lacrimanti e volti verso la destra, per evitare di vedere lo scempio in atto, non poteva dire con certezza che qualcosa fosse stato immesso.
Garzina, cerotto e, passato il dolore immediato, giorni di prurito sulla ferita, col divieto assoluto di grattare, pena la ripetizione della vaccinazione.
Caduta la crosta formatasi, e asciugata la ferita, era rimasta la cicatrice.
Indelebile, come quella provocata anni prima dal braciere.


L’altro intervento medico era stato l’asportazione delle tonsille.
Non ricorda cosa avesse provocato la decisione, un valido motivo ci sarà stato, ma non ne era a conoscenza.
Ricorda invece perfettamente l’andamento dell’operazione.
Il giorno del ‘sacrificio’, in sala operatoria il chirurgo aveva preso atto che Pepè era troppo minuscolo per riuscire a fermarlo sulla poltrona.
Quindi il fratello laico, Lorenzo, si era seduto prendendolo in braccio, incrociandogli le braccia in modo da evitare eventuali, benché improbabili, gesti inconsulti.
Con un apribocca, una mascherina, una spruzzatina di anestetico gassoso, era andato nel mondo dei sogni.
Senza averlo sentito, essendo sicuramente stato addormentato, ancora per anni gli era frullato per la testa un sinistro “clic- clac” nel ricordo di quell’operazione.
Per il primo giorno dopo il taglio, solo ghiaccio e gelati.
Non fosse stato per il dolore del passaggio nella gola, sarebbe stata una festa bellissima.
Nei giorni successivi, le zuppe di latte e biscotti sarebbero state un’altra grande festa, non fosse che ne aveva mangiate fino alla nausea, fino ad averle in uggia per molti degli anni successivi.


C’era stata un’epidemia di difterite.
Tamponi ficcati in gola a tutti, per cercare i positivi all’esame.
Pepè e altri cinque erano risultati “portatori sani”; per loro si era reso necessario il ricovero in quarantena.
In una infermeria era stato trovato un locale, con un piccolo bagno, e vi erano stati sistemati sei lettini.
Divieto assoluto di uscita ed entrata nella stanza.
Isolamento assoluto.
Iniezione ogni giorno, tampone intermedio di controllo, e tampone finale per fine malattia.
Dalla ‘famiglia’ avevano mandato libri e quaderni, per non restare troppo indietro con le lezioni.
Qualche rivista di fumetti e le “parole incrociate”.
Queste ultime un totale fallimento: aveva ritenuto sufficiente riempire le caselle con parole sensate, solo che le verticali non coincidevano mai con le orizzontali.
Feroci battaglie con i cuscini e piccole liti (per esempio, quando qualcuno stava troppo in bagno, e i ‘bisogni’ diventavano impellenti), aiutavano il passar del tempo.
Per un po’, avevano scoperto un nuovo passatempo, che si preannunciava divertente, con qualche rischio.
Divisa da una grande porta a vetri, sempre chiusa, c’era l’infermeria delle ragazzine; anche loro in isolamento per acciacchi infettivi.
Dopo i primi giorni di segregazione totale, le maglie della sorveglianza, soprattutto la sera, si allentavano un pochino. Le infermiere andavano a cenare o a pregare altrove, e questo consentiva brevi scorribande fuori dalla gabbia.
Scoperta la presenza delle femminucce al di là della porta a vetri, la curiosità di vederle, magari conoscerle, era stata troppo forte.
Ostacolata dal fatto che loro non ne volevano proprio sapere.
Appena vedevano gli incursori avvicinarsi, scappavano gridando l’allarme alla loro infermiera, che arrivava di corsa, imbufalita.
I pionieri erano più veloci, per cui al suo arrivo la cerbera, non trovando nessuno, probabilmente dava delle ‘visionarie’ alle sue pulcine e tornava alle sue faccende.
Le quali pulcine, pur malate, avevano una malignità precoce ìnsita, poiché avevano pianificato un contrattacco degno di migliore causa.
Si mettevano bene in vista, tre o quattro, invitanti all’approccio, consistente più che altro in boccacce reciproche.
Intenti a questo modo di ‘tubare’, ai fantaccini sfuggiva la sparizione, silenziosa, di una delle paperelle, che tornava accompagnata dall’infermiera.
Tuoni, fulmini, saette, sgridate, minacce di segnalazione del ‘delitto’ al prefetto… un finimondo, solo per quattro boccacce.
Che poi, i sei carcerati avevano in comune, nei confronti delle femminucce, la certezza che solo i colori dividessero i maschi dalle femmine: celeste i maschietti, rosa le femminucce.
La scoperta dell’altra, deliziosa, metà del cielo, avrebbe avuto inizio nel tempo, chi più prima chi più dopo, non più in branco, ma con percezioni personali e singole.
A parte la segregazione e le iniezioni, quel periodo aveva evitato ai sei ‘carcerati’ sia le levatacce all’alba che le messe ogni mattina.
Nell’insieme, non un cattivo ricordo…


Un altro indimenticabile contatto con i dottori era avvenuto per una polmonite.
Una domenica sera erano andati al salone cinematografico, per la visione di un film.
Era inverno, faceva un freddo davvero invernale; il salone non aveva riscaldamento. C’era una grande stufa, il cui tubo di scarico dei fumi attraversava tutto il salone, dando una parvenza di calore, più intuitiva che reale.
I ragazzi erano tutti ben coperti da maglioni e cappotti, ma il freddolino, stando fermi, si faceva ugualmente sentire.
A Pepè era venuta la brillante idea di andarsi a mettere nei pressi della stufa.
Lì c’era un gran bel calduccio; tanto calduccio da invogliarlo a togliere il cappotto.
Niente di male, sennonché alla fine del primo tempo, per rinfrescarsi un po’ dal troppo caldo, non avesse avuto l’altrettanto brillante idea di uscire a prendere una boccata d’aria fresca.
Anzi, freddissima.
Ovviamente senza cappotto.
Nella nottata, forti dolori a ogni respiro e la febbre altissima, avevano fatto intervenire i medici dell’ospedale.
Era venuto il primario, accompagnato dal suo vice.
Erano piuttosto buffi: il primario alto e grasso, il suo vice alto e segaligno.
Facevano subito pensare ai filmetti di Gianni e Pinotto…
Per i ragazzi, a parte la camicia ed eventuale maglione, non erano previste magliette o canottiere.
In occasione di visite mediche, forse per evitare rimbrotti da parte dei dottori, veniva fatta indossare una maglietta “di sotto”.
Un fazzoletto immacolato sulla schiena, per evitare il freddo dello stetoscopio, e diagnosi immediata: polmonite.
Ricovero, iniezioni a volontà, compresse…
Anche qui il vantaggio di saltare le messe e poter dormire di più la mattina.
E niente libri e quaderni.
Gli è rimasto in mente un medicinale, forse un ricostituente, un cucchiaio al giorno.
L’odore era di anice, uno dei pochi liquori che nel corso dell’esistenza non ha mai più amato, neanche travestito da Pernod.

lunedì 27 settembre 2010

Scampoli

Cassettini della memoria che si aprono, poi si richiudono per aprirne altri.

Natale.
Una famiglia allargata, senza padri né madri, formata solo da tanti fratelli.
Nel ricreatorio era stato fatto un grande presepe, appoggiato all’angolo in fondo a destra.
Cavalletti a sostegno di tavoloni, ricoperti di muschio e sassolini.
Le montagne e la grotta fatti con carta da pacchi stropicciata, e poi dipinte di verde e marrone.
Le stradine segnate dal gesso, scendevano dai monti, per finire tutte all’ingresso della grotta.
Nella grotta il bue, l’asinello e la Famiglia.
Dai monti e sul prato davanti alla grotta tante statuine, pecorelle, omini che lavoravano; un ruscello con l’acqua vera che faceva girare la ruota di un mulino.
Tutte cose che Pepé non aveva mai visto; appena poteva, si staccava dal giocare, per guardare, per sognare…
Entrava anche lui nel presepe, entrando ogni volta in personaggi diversi.
La notte di Natale, al ritorno dalla messa di mezzanotte, avevano trovato una bevanda calda, forse una specie di thé, prima di andare a letto.
Sotto il cuscino avevano trovato un sacchettino: il regalo di Natale.
Un paio di mandarini, un po’ di caramelle, qualche cioccolatino, un medaglione di zucchero con stampato Gesù bambino, un pacchettino di biscotti.
Nulla per chi aveva tutto, tutto per chi aveva niente.
Pepè aveva aperto il sacchetto, sparpagliando tutto sul lenzuolo; era tardi e la voglia di divorare tutto subito era stata cancellata dal sonno.
Aveva raggruppato il suo tesoro sotto il cuscino, tenendo tutto unito con la mano, forse col timore che potesse scomparire, e si era addormentato.
Al mattino c’era ancora tutto; ma i cioccolatini, col calore della mano e il caldo del cuscino, si erano sciolti, impiastricciando cuscino e lenzuolo.
Si era prima leccata per bene la mano; lo stesso aveva fatto per recuperare il più possibile la cioccolata dal lenzuolo e dalla federa.
Le macchie erano rimaste, ma non lo avevano preoccupato.
(Moltissimi anni dopo questa prima notte natalizia, aveva immaginato l’espressione di suor Emilia, la suora addetta alle biancherie, nel vedere quelle strane macchie tra lenzuolo e cuscino; la immaginava chiedersi cosa e come le avesse potute provocare; la immaginava mentre annusava per conferma e farsi poi scappare un sorriso, che, arcigna com’era, quasi mai elargiva).

Le veglianti.
Tra i tanti ragazzi, alcuni, per difetto o per pigrizia, di notte bagnavano il letto.
Per evitare, o quantomeno limitare, questa disavventura, c’erano le “suore veglianti”.
Erano suore anziane, non più in grado di reggere i ritmi di lavoro che le necessità dei vari reparti imponevano.
Alla sera si recavano ove si riteneva necessaria la presenza di qualcuno che ‘vegliasse’ sul sonno dei ragazzi o degli ammalati.
I “bagna letto”, così erano chiamati, erano contraddistinti da una fettuccia annodata ai piedi del letto.
A orari più o meno precisi, la vegliante faceva il giro della camerata, svegliando i ragazzi contraddistinti dalla fettuccia.
Talvolta gli orari della sveglia non coincidevano con la necessità di qualche ragazzo: o poco prima o poco dopo il letto si bagnava.
Queste suore avevano una stanzetta con un tavolino, una lampada da tavolo per leggere e un lettino per riposare.
E un fornelletto elettrico.
Tutte le sere, le suore del giorno facevano trovare una caraffetta di latte, che la vegliante di turno si scaldava durante la notte, forse per combattere un pochino il sonno.
Come si ricorderà, Pepè era escluso dal latte a colazione, poiché non ritenuto bisognoso di quell’alimento.
Ma la voglia e il piacere del latte erano troppo forti, e pur sapendo di non fare una bella azione, appena vedeva la porta dello stanzino aperta, e nessuno in vista, sgattaiolava e rubava un sorso di quel latte, scappando subito dopo.
Questo ‘furto’ era ormai pianificato, quando una sera, nel sorso veloce nella gola, col latte era sceso qualcosa che non avrebbe dovuto esserci.
Il dubbio era che fosse una mosca, ma anche un ragno non era da escludere.
Da quella volta, le veglianti avevano potuto contare sulla razione di latte completa.

Suor Giuseppina.
Era una suora minuta, uno scriciolo di suora.
Curava la cucina, per quanto toccava alla famiglia: verdure, uova, piatti personali (tipo il mangiare in bianco), scaldare le vivande nel caso di qualche ritardo (come succedeva con l’addetto alla lettura del libro durante il pasto).
Il grosso del mangiare arrivava dalla cucina centrale; in quella della famiglia si suddividevano le porzioni nei piatti e si rifiniva se del caso.
Curava anche un piccolo pollaio adiacente al palazzone.
Le stesse premure che aveva verso i ragazzi le usava verso le galline.
Quando c’erano le uova, quasi di nascosto le dava da bere ai ragazzi che sapeva più bisognosi di un qualcosa di più, come quelli che dovevano sorbire l’olio di fegato di merluzzo.
Era di una umiltà e di una riservatezza uniche: se vedeva un ragazzo che faceva qualcosa che non avrebbe dovuto fare, lo sgridava, ma con dolcezza; e, soprattutto, la cosa finiva lì.
D’estate veniva mandata in colonia per qualche giorno, al mare o in montagna, per riposare un pochino e respirare un po’ d’aria buona.
Regolarmente, ogni anno, rientrava con gli occhiali rotti: una volta la stanghetta, un’altra il poggianaso, altra ancora una lente…
E di ciò si disperava fino alle lacrime, per il danno che portava alla comunità.
Se la santità delle persone fosse assegnata per meriti, suor Giuseppina sarebbe una santa.