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lunedì 27 settembre 2010

Scampoli

Cassettini della memoria che si aprono, poi si richiudono per aprirne altri.

Natale.
Una famiglia allargata, senza padri né madri, formata solo da tanti fratelli.
Nel ricreatorio era stato fatto un grande presepe, appoggiato all’angolo in fondo a destra.
Cavalletti a sostegno di tavoloni, ricoperti di muschio e sassolini.
Le montagne e la grotta fatti con carta da pacchi stropicciata, e poi dipinte di verde e marrone.
Le stradine segnate dal gesso, scendevano dai monti, per finire tutte all’ingresso della grotta.
Nella grotta il bue, l’asinello e la Famiglia.
Dai monti e sul prato davanti alla grotta tante statuine, pecorelle, omini che lavoravano; un ruscello con l’acqua vera che faceva girare la ruota di un mulino.
Tutte cose che Pepé non aveva mai visto; appena poteva, si staccava dal giocare, per guardare, per sognare…
Entrava anche lui nel presepe, entrando ogni volta in personaggi diversi.
La notte di Natale, al ritorno dalla messa di mezzanotte, avevano trovato una bevanda calda, forse una specie di thé, prima di andare a letto.
Sotto il cuscino avevano trovato un sacchettino: il regalo di Natale.
Un paio di mandarini, un po’ di caramelle, qualche cioccolatino, un medaglione di zucchero con stampato Gesù bambino, un pacchettino di biscotti.
Nulla per chi aveva tutto, tutto per chi aveva niente.
Pepè aveva aperto il sacchetto, sparpagliando tutto sul lenzuolo; era tardi e la voglia di divorare tutto subito era stata cancellata dal sonno.
Aveva raggruppato il suo tesoro sotto il cuscino, tenendo tutto unito con la mano, forse col timore che potesse scomparire, e si era addormentato.
Al mattino c’era ancora tutto; ma i cioccolatini, col calore della mano e il caldo del cuscino, si erano sciolti, impiastricciando cuscino e lenzuolo.
Si era prima leccata per bene la mano; lo stesso aveva fatto per recuperare il più possibile la cioccolata dal lenzuolo e dalla federa.
Le macchie erano rimaste, ma non lo avevano preoccupato.
(Moltissimi anni dopo questa prima notte natalizia, aveva immaginato l’espressione di suor Emilia, la suora addetta alle biancherie, nel vedere quelle strane macchie tra lenzuolo e cuscino; la immaginava chiedersi cosa e come le avesse potute provocare; la immaginava mentre annusava per conferma e farsi poi scappare un sorriso, che, arcigna com’era, quasi mai elargiva).

Le veglianti.
Tra i tanti ragazzi, alcuni, per difetto o per pigrizia, di notte bagnavano il letto.
Per evitare, o quantomeno limitare, questa disavventura, c’erano le “suore veglianti”.
Erano suore anziane, non più in grado di reggere i ritmi di lavoro che le necessità dei vari reparti imponevano.
Alla sera si recavano ove si riteneva necessaria la presenza di qualcuno che ‘vegliasse’ sul sonno dei ragazzi o degli ammalati.
I “bagna letto”, così erano chiamati, erano contraddistinti da una fettuccia annodata ai piedi del letto.
A orari più o meno precisi, la vegliante faceva il giro della camerata, svegliando i ragazzi contraddistinti dalla fettuccia.
Talvolta gli orari della sveglia non coincidevano con la necessità di qualche ragazzo: o poco prima o poco dopo il letto si bagnava.
Queste suore avevano una stanzetta con un tavolino, una lampada da tavolo per leggere e un lettino per riposare.
E un fornelletto elettrico.
Tutte le sere, le suore del giorno facevano trovare una caraffetta di latte, che la vegliante di turno si scaldava durante la notte, forse per combattere un pochino il sonno.
Come si ricorderà, Pepè era escluso dal latte a colazione, poiché non ritenuto bisognoso di quell’alimento.
Ma la voglia e il piacere del latte erano troppo forti, e pur sapendo di non fare una bella azione, appena vedeva la porta dello stanzino aperta, e nessuno in vista, sgattaiolava e rubava un sorso di quel latte, scappando subito dopo.
Questo ‘furto’ era ormai pianificato, quando una sera, nel sorso veloce nella gola, col latte era sceso qualcosa che non avrebbe dovuto esserci.
Il dubbio era che fosse una mosca, ma anche un ragno non era da escludere.
Da quella volta, le veglianti avevano potuto contare sulla razione di latte completa.

Suor Giuseppina.
Era una suora minuta, uno scriciolo di suora.
Curava la cucina, per quanto toccava alla famiglia: verdure, uova, piatti personali (tipo il mangiare in bianco), scaldare le vivande nel caso di qualche ritardo (come succedeva con l’addetto alla lettura del libro durante il pasto).
Il grosso del mangiare arrivava dalla cucina centrale; in quella della famiglia si suddividevano le porzioni nei piatti e si rifiniva se del caso.
Curava anche un piccolo pollaio adiacente al palazzone.
Le stesse premure che aveva verso i ragazzi le usava verso le galline.
Quando c’erano le uova, quasi di nascosto le dava da bere ai ragazzi che sapeva più bisognosi di un qualcosa di più, come quelli che dovevano sorbire l’olio di fegato di merluzzo.
Era di una umiltà e di una riservatezza uniche: se vedeva un ragazzo che faceva qualcosa che non avrebbe dovuto fare, lo sgridava, ma con dolcezza; e, soprattutto, la cosa finiva lì.
D’estate veniva mandata in colonia per qualche giorno, al mare o in montagna, per riposare un pochino e respirare un po’ d’aria buona.
Regolarmente, ogni anno, rientrava con gli occhiali rotti: una volta la stanghetta, un’altra il poggianaso, altra ancora una lente…
E di ciò si disperava fino alle lacrime, per il danno che portava alla comunità.
Se la santità delle persone fosse assegnata per meriti, suor Giuseppina sarebbe una santa.

domenica 5 settembre 2010

La cittadina allargata

Alle famiglie maschili, in altra zona, corrispondevano quelle femminili.
Ai giuseppini, maschietti, c'era il pendant delle orfanelle.
Agli invalidi, le invalide; ai sordomuti, le sordomute, e così via.
Oltre a questi reparti di ricovero, in un'altra zona, separata da una strada, c'erano le "infermerie".
Era un modo improprio di definire un vero e proprio ospedale.
Al piano terra c'era tutta una serie di ambulatori, completa in tutte le specializzazioni: da quello dentistico a quello chirurgico, da medicina generale a ginecologia (Pepè non sapeva cosa fosse, ma c'era, e se c'era a qualcosa doveva servire), da ortopedia a pediatria.
C'erano tutti, e pare che fossero seguiti da fior di professionisti.
Erano aperti anche agli esterni; non c'erano tariffe per le visite e per le cure: chi poteva faceva un'offerta libera, chi non poteva ringraziava.
E un "grazie" pagava la visita.
Gli ospiti della cittadella avevano la precedenza nelle visite sugli esterni: facevano parte della 'famiglia', e come famigliari erano trattati.
Ai piani superiori e in complessi distaccati, erano situate le già citate infermerie.
Erano lunghe camerate, con i letti affiancati su due lati, divisi dal comodino e da una sedia.
Al fondo di ciscuna di queste camerate era situato un piccolo altare; a fianco la sala medicazioni, che al mattino presto serviva alla vestizione del sacerdote in vista della messa.
In queste infermerie veniva ricoverato chi necessitava di cure ospedaliere, di medicina o chirurgia; per i malati cronici c'erano altri reparti appositi.
L'assistenza, sia negli ambulatori che nelle infermerie, era affidata alle suore e ai fratelli. Una scuola infermieristica interna ne curava la preparazione.
Tornando alla vita di Pepè, dopo l'inizio della scuola, questa era scandita da tempi prefissati e quasi immutabili nel tempo.
Una parte importante di questi tempi era dedicata, come già detto, alle funzioni religiose; poi la scuola, i periodi di ricreazione nel corso della giornata, che non erano mai abbastanza lunghi (a posteriori, per la verità, non erano brevi), ma spezzavano abbastanza i tempi per le altre occupazioni.
Tra queste, oltre le lezioni di canto (inutili e superflue per lui) e la ginnastica, c'era l'insegnamento "a servire messa".
Si trattava di imparare a fare i chierichetti.
Questo servizio non era destinato alla 'chiesa grande'. Là ci pensavano i fratelli; l'accesso a questo servizio era allora precluso alle donne, quindi anche alle suore. Ma era una disposizione generale della chiesa di quei tempi.
I chierichetti erano destinati al servizio della messa nelle infermerie.
Quelli destinati a quell'ufficio avevano la sveglia alle cinque e mezzo del mattino, per essere presenti nelle varie sedi alle sei, orario di inizio delle messe, più o meno in contemporanea in ciascuna infermeria.
Ci si avviava in gruppo fino alle diverse diramazioni, e nello stesso punto di separazione ci si ritrovava al termine della funzione.
In queste grandi camerate quello che colpiva ogni mattina erano gli odori della notte.
Odori di urine notturne, di medicinali, di chiuso, di respiri affannosi.
Soprattutto nei reparti maschili.
In quelli femminili, già all'alba leggeri profumi coprivano in parte gli odori sgradevoli.
Così, con pochi partecipanti alla preghiera, molti dormienti, alcuni talvolta russanti, la messa era servita.
Al termine, ed era quanto mai piacevole, c'era sempre, ogni giorno, una 'mancetta' al chierichetto: un dolce, caramelle, un frutto, a sorpresa ogni tanto un piccolo giocattolino.
Anche in questo i reparti femminili si distinguevano: era tutto più vario e abbondante.
Dagli uomini, erano le suore che racimolavano qualcosa da dare ai serventi messa.
Dalle donne, erano le stesse ricoverate che mettevano insieme un po' di bendidio: forse prevaleva in loro lo spirito materno, verso chi sapevano bene che questo spirito non lo avevano mai provato.
Ogni tanto, guardando la camerata, o percorrendola per portare la comunione a chi l'aveva richiesta, si notava un letto vuoto, con il materasso piegato in due.
La domanda era sempre la stessa: paziente dimesso, o paziente deceduto?
Una preghierina, spontanea, ci scappava: se dimesso come augurio, se deceduto come addio a uno sconosciuto che aveva preso un'altra strada.
Al luogo di raduno, si scambiavano i doppioni delle mancette ricevute, e poi in chiesa grande per la fine di quella messa, che era sempre più lunga di quella delle infermerie.
Sia perché iniziava più tardi, sia perché le comunioni a decine e decine di suore, religiosi e ricoverati, allungavano i tempi di quella funzione.
Per i chierichetti c'era lo spazio temporale per un sonnellino, turbato di tanto in tanto dalle nocche dell'assistente che, battendo sul banco, invitava alla sveglia.