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lunedì 3 maggio 2010

Altri spiccioli, poi addio...

Altri flash al magnesio, di personaggi e atmosfere nel piccolo paese.

C'erano due sorelle, signorine per educazione, zitelle per vocazione. Erano in contatto con l'ospizio, forse per beneficenza, che allora era quasi una prerogativa di donne sole. A causa dei contatti con le suore, ogni tanto queste le andavano a trovare, portandosi appresso il ragazzino. Abitavano in una bella casa, pavimenti con piastrelle multicolori, mobili antichi con centrini in pizzo sotto soprammobili che avevano tutta l'aria di essere preziosi.
Entrando in quella casa ciò che colpiva era un forte e diffuso odore di sapone, quello da bucato. Infatti le due signorine fabbricavano in casa questo tipo di sapone, in grossi pani rettangolari, che si vedevano bene ordinati in una stanzetta. Il biscotto fatto in casa ci scappava sempre, quindi le visite erano più che gradite al bambino, cui erano sconosciute le scorpacciate di dolciumi: i vecchietti preferivano masticare pezzi di sigaro, che provocavano sputacchi marrone, che le medaglie delle olimpiadi erano monetine al confronto.

Nel paese c'era anche una piccola fabbrichetta di bevande gassate, a livello di gazzose e, forse, birra. Non ricorda a che titolo potesse intrufolarsi all'interno dei locali di lavorazione, però gli è rimasto nel naso il pizzicorino piacevolmente fastidioso, quello che costringeva a chiudere gli occhi e soffregarselo per farlo passare.
C'era anche un mulino, di cui conta di parlare più avanti.
Poco prima della fine della seconda elementare, l'ospizio ebbe la visita della madre generale dell'ordine delle suore. Era una specie di visita pastorale a tutti gli istituti, quella che periodicamente si sobbarcava, per vederne l'andamento e forse per valutare se per l'impiego delle suore valeva la pena o meno tenere in piedi queste strutture.
Visto il bambino, aveva ritenuto che un ospizio non fosse il posto più adatto per crescerlo, e aveva disposto il suo trasferimento diretto alla casa madre, dove sarebbe stato accolto in ambienti appositi, già in essere.
Detto fatto, iniziarono i preparativi, che consistevano in alcuni adempimenti, più che altro di saluti. Al parroco, alle suore dell'asilo, alla maestra (nel frattempo la scuola era finita), al padrino di battesimo.
Che venne a sapere essere il padrone del mulino. La visita a questi è stampata nella sua memoria, non tanto per la scoperta di avere avuto un padrino, quanto per l'ambiente che aveva accolto la sua visita di saluto: una stanza semibuia, il padrino nel letto, con accanto una grossa sputacchiera piena di sabbia. E di sputi. Più avanti venne a sapere che era affetto da tisi. Pace all'anima sua, anche se come padrino lo avrebbe preferito presente, almeno quel tanto da fargli credere di non essere del tutto solo.
Il parroco aveva programmato un giro alla città capoluogo di provincia, per un saluto che riteneva doveroso. Il ragazzino, entrando in città era rimasto affascinato dai palazzoni, dai monumenti, dalla gente che gli appariva così diversa da quella del paese, nel vestire e nel parlare: qui parlavano anche italiano, e lo capiva da quel poco che aveva imparato a scuola, diverso dal dialetto che invece imperava al paese.
Ma quella visita non era una gita. Quel giro in città era per salutare una persona che non vedeva da sette anni, e che poi non avrebbe rivisto più. Suo padre.
Vagamente ricordava dei gradini da salire, alla fine di questi un portone con delle sbarre, e sbarre di ferro anche alle finestre: il carcere.
Contrariamente a quello che logica vorrebbe essere un momento indelebile dalla mente di un ragazzino, a lui erano rimasti impressi i contorni di quella visita, la città e tutto il resto; dell'incontro, forse degli abbracci, forse del pianto di suo padre, forse del pianto suo, forse la commozione del parroco... non era rimasto nulla. E, come il volto della mamma, anche quello del padre era stato rimosso, già all'uscita dalla città.
In vista della partenza, tra le varie scontate raccomandazioni delle suore, c'erano anche le istruzioni per rispondere alle domande che si fanno a un bambino: tua madre? è morta; tuo padre? è in ospedale. Non seppe mai, a parte la risposta sulla mamma che era la verità, se quella per il padre avesse un senso; ancora adesso ritiene che la risposta più veritiera sarebbe stata: morto anche lui. E infatti lo era.
A sette anni, in un ambiente limitato, un bambino non può sapere il senso di innocenza o colpevolezza. Uscendo dal paese per andare lontano, in un luogo sconosciuto, alla scoperta di un nuovo mondo, l'ultima cosa a cui egli pensa è se il padre fosse innocente o colpevole. Ed è una domanda che, crescendo, non si è mai posta.
Qualcuno, non ricorda chi, gli aveva raccontato di una volta che era stato rincorso in strada dal padre, ubriaco, urlante e armato di coltello.
Doveva essere successo prima del suo ricovero all'ospizio, quindi entro i quattro anni. Era sempre stato scettico su quel racconto, anche perchè non riusciva a pensare che delitto potesse avere commesso a quell'età per provocare una simile reazione.
Comunque, forse nell'inconscio, la figura del padre era stata associata a quell'episodio, e, sempre forse, questo era stato il motivo dell'assenza emotiva nel salutarlo.
Anche a lui, pace all'anima sua; al bambino non più bambino piace pensare che quel che era stato forse non era stata tutta colpa sua.

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