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giovedì 17 giugno 2010

Si comincia

La primissima parte della nuova esistenza, per un breve periodo, era stata dedicata alla conoscenza dell'ambiente, quello fisico.
Subito dopo, o meglio in contemporanea, si era dovuto abituare a nuovi ritmi, a un modo di vivere totalmente diverso da quello precedente.
Uno dei primi ostacoli lo aveva trovato nel capirsi con gli altri compagni d'avventura. O di sventura.
L'italiano imparato al paese non era sufficiente a capire e farsi capire. Questa situazione, peraltro, era comune un po' a tutti: era una piccola Babele, una macedonia di dialetti che ciascuno portava in dote dai paesi di provenienza.
Che erano molti, e geograficamente sconosciuti l'uno all'altro.
Le giornate, in quel periodo di prima estate, erano scandite da tempi precisi.
Intanto, la messa. Tutti i giorni. In chiesa grande.
Più avanti nel racconto Pepè spiegherà il motivo dell'aggettivo "grande" a questa chiesa.
Che, in effetti, grande lo era veramente. In quel primo approccio, la curiosità aveva avuto il sopravvento sul sonno, che, finito il tempo delle scoperte, avrebbe poi accompagnato le sue visitazioni matutine.
Per adesso si guardava intorno, confrontava con la chiesa del suo paese, che fino ad allora era l'unica che conosceva.
Più o meno: a parte l'acquasantiera che lo aveva dissetato, ricordava vagamente la sacrestia, con armadi altissimi (in realtà non lo erano, ma la sua minuzia glieli facevano ricordare così), i banchi, la navata centrale. Quando si riempiva, la domenica e le feste comandate, era un miscuglio di persone, vestite ciascuna secondo le proprie possibilità, sparse secondo le conoscenze, perchè la messa era l'occasione per scambiarsi informazioni, commentare i fatti della settimana.
Per le donne, soprattutto di concludere pettegolezzi, talvolta iniziati al mercato della settimana precedente.
Le preghiere venivano espresse in un coro cacofonico, nel senso che ciascuno era libero di interpretarle a modo suo.
Dei canti liturgici, sempre al paese, non ricordava molto; ma se seguivano la libera interpretazione delle preghiere, è facile pensare al padreterno con i tappi alle orecchie.
In questa nuova chiesa, tutto era ordinato, i posti assegnati per le varie zone restavano invariati, non c'era la possibilità di sconfinamenti da un settore all'altro.
Questi settori erano principalmente tre.
Guardando l'altare maggiore, nel corridoio a destra c'erano i banchi per gli uomini. Anche i bambini rientravano in questa categoria, ed avevano il loro preciso angolo di preghiera.
La navata centrale, molto ampia, era il regno delle suore. Queste si dividevano in varie formazioni, con abiti che differivano l'una dalle altre. E ciascun gruppo aveva il suo spazio, inamovibile.
Il corridoio di sinistra era dedicato alle donne laiche. Anche qui, come i mini maschi, le bambine erano considerate donne.
Le preghiere, quelle senza musica, avevano una uniformità e una precisione nell'inizio e nella fine, che lasciavano sbalorditi.
E nessuno a dare segnali di "vai" o "stop": la ripetizione continua, evidentemente, aveva automatizzato il mormorio delle orazioni. E in seguito, la monotonia avrebbe conciliato il sonno, già bagaglio pesante di ogni mattina.
Le domeniche, e le solite feste comandate, le messe diventavano due; quella matutina e quella cantata, la messa solenne, che era un tripudio di canti e cori polifonici, ovviamente interpretati dai vari settori delle suore.
C'era, in queste funzioni, una vivacità e una coralità che non consentivano i sonnellini del mattino. E, comunque, alle dieci del mattino, dopo qualche corsa nel cortile, ormai anche il sonno era svanito.
Al rientro dalla messa, nel refettorio prima descritto, c'era la colazione.
Le scodelle erano di metallo, un po' perché il dopoguerra qui non era ancora iniziato, un po' per evitare cocci, probabili vista la vivacità in dote a quell'età.
Il latte era scarso, ed era destinato ai ragazzi più delicati, come salute e come conformazione fisica.
Pepè, nonostante il nanismo tipico dell'isola di provenienza, non rientrava tra i beneficiari di questo alimento.
La colazione consisteva in una tazza di brodo vegetale; la parte superiore della scodella era occupata dal brodo liquido, nel fondo era adagiata una poltiglia di patate e altre verdure, macinate per creare il brodo, appunto vegetale.
Nei suoi ricordi, questa poltiglia restava sul fondo della scodella. Proprio non andava giù, al di là del fatto che fosse a colazione.
(Più avanti con gli anni si sarebbe reso conto che, del brodo, quella poltiglia era la parte migliore; ma per lungo tempo lui, e i compagni di questo tipo di colazione, l'avevano considerata una schifezza. Ma quello passava il convento, e non c'erano alternative).

sabato 5 giugno 2010

Il nome e altro

Una delle prime cose che aveva scoperto all'arrivo nell'orfanotrofio era che le suore e i fratelli laici, al momento dei voti religiosi, cambiavano nome: ne ricevevano uno, forse a loro scelta, che li avrebbe accompagnati fino alla fine del loro servizio; o fino alla fine della loro "vocazione".
Era un sancire l'addio (che talvolta era solo un arrivederci) al passato, per iniziare una nuova vita, fatta di sacrifici diversi da quella precedente, fatta soprattutto di dedizione alla cura degli altri.
Ricalcando questa usanza, il ragazzino ha scelto di prendere un nome nuovo, che lo accompagni nel prosieguo dell'avventura. Parlando di lui, i riferimenti al "bambino" o al "ragazzino" erano diventati ingombranti nella stesura del racconto.
(D'altra parte, continuare a definire "bambino" uno che bambino non era mai stato, ormai gli sembrava una forzatura poco opportuna. Nell'ospizio da poco lasciato, lui non era stato un bambino: era il vecchietto più giovane, di decenni rispetto agli altri).
Così, lasciando il proprio nome al di là del mare, nell'isola che lo aveva visto nascere, con i ricordi della prima parte della sua esistenza, non propriamente felici, aveva scelto di chiamarsi Pepè; un nome non impegnativo, assente dal calendario dei santi, quindi senza possibilità di feste di onomastico, che comunque anche con il nome suo proprio non aveva mai festeggiato.
Il suo arrivo nella nuova casa aveva coinciso con un fatto che, a poco più di un mese dall'essere avvenuto, era ancora oggetto di commenti e, visto l'ambiente, di preghiere.
Appunto poco più di un mese prima, un aereo si era schiantato contro una collina presso la città. Su quell'aereo c'era una squadra di calcio e altre persone, tutti morti nell'incidente.
Del calcio, Pepè non sapeva nulla; i calci, quelli sì li conosceva, poiché nelle liti con i compagni se li scambiavano spesso: dato il suo essere minuto, tanti erano quelli che prendeva e pochi quelli che riusciva a dare.
Alle sue gambette corte, in quelle battaglie, sopperiva tentando di mordere (allora i denti lo consentivano), o tirando all'avversario qualsiasi cosa a portata di mano.
D'altronde all'ospizio, né i vecchietti né le suore erano in grado di erudirlo sul tema. E neanche la scuola; sull'argomento calcio c'era un'ignoranza generalizzata, che Pepè si era portato appresso nel trasloco.
Dai commenti di quel disastro aereo, aveva appreso che c'era un mondo, quello del calcio, triste per la scomparsa di una squadra che, con tante altre squadre simili, giocava "al pallone", rincorrendo una grossa palla, cercando di portarsela via a vicenda, puntando verso dei pali entro cui scaraventarla.
Quando succedeva erano grida di gioia da una parte, e mugolìi di delusione dall'altra.
Il gruppo, diciamo, dirigente era diviso nel "tenere" per una squadra o per altre. Ma due in particolare erano le più quotate: una di queste era proprio quella dell'aereo caduto.
C'era un assistente (come già detto un fratello laico), che di questa squadra era veramente fanatico: forse nei voti di abbandono della vita precedente, non era previsto di dover lasciare la propria fede calcistica. Così potevano convivere la Fede per vocazione e l'altra Fede per il colore di una maglia.
La frequentazione quotidiana di questo fratello (Lorenzo), i suoi occhi umidi ogni volta che si parlava dei "suoi" morti, non potevano non contagiare Pepè che, da subito, aveva scelto quel colore e quella bandiera come simboli di una fede calcistica, ancora niente conosciuta nelle sue glorie passate e non prevedibile nelle sue disavventure future.
Sono quelle scelte fatte senza un perché speciale.
Se quel tragico avvenimento non lo avesse influenzato, se avesse appreso nel tempo, con calma, i rudimenti di questo sport, forse le sue scelte avrebbero potuto essere diverse.
Forse.
O forse no: qualunque altra scelta avesse fatto, non sarebbe stata coerente con la sua parte di vita iniziale. Impossibile che a questa potessero seguire giorni di gaudio; la strada tracciata non lo consentiva. Infatti alla sofferenza per la scomparsa di "quella" squadra, sarebbero seguite le sofferenze continue per quelle successive.
Niente di nuovo sotto il sole.

martedì 1 giugno 2010

Un romanzo, forse una vita

7 - Nuova casa, nuova vita

Eravamo rimasti all'entrata, pronti a continuare la visita della nuova abitazione del ragazzino venuto d'oltremare.
Sulla destra, una scala portava a un piano rialzato.
Una porta introduceva a quello che era chiamato "ricreatorio". Un salone rettangolare, senza pilastri nel mezzo, leggermente angolato verso il centro, circondato da grandi finestroni sul lato sinistro (aperti verso il cortile citato il precedenza, quello del cinema/teatro), e in fondo (al di là di questi, a circa tre metri, un alto muro che impediva la visuale oltre questo).
Dal salone, da una porta si entrava in un corridoio, che dava accesso ai bagni dei ragazzi (soliti orinatoi a parete e bagni a porta chiusa, sempre alla turca, lunghi lavandini forniti di rubinetti a stella).
In fondo al corridoio, un locale adibito a laboratorio delle suore: qui cucivano e rammendavano i danni a pantaloni e calze dei ragazzi.
Lungo questo corridoio c'era una specie di portascarpe, con cassette, numerate con il numero assegnato a ciascuno di essi; lì si metteva il paio di calzature non in uso sul momento. Che erano quelle da uscita e degli zoccoli di legno con tomaia per giocare e per l'uso quotidiano.
Uscendo dal ricreatorio, continuando la scalinata, al primo piano, si arrivava al dormitorio, esteso verso sinistra in corrispondenza del ricreatorio stesso, e in prosecuzione al corpo dello stabile dall'altra parte.
C'erano tre file di letti, le due laterali con le spalliere verso i muri di perimetro, e una centrale per tutta la lunghezza del locale. A ogni letto corrispondeva una sedia, su cui appoggiare l'asciugamano e gli indumenti tolti per la notte.
Ai piedi di ogni letto un numero, lo stesso della scarpiera, che corrispondeva a quello assegnato a ciascuno degli ospiti, a ogni inizio d'anno scolastico.
Naturalmente anche il dormitorio aveva i suoi gabinetti, con le stesse caratteristiche di quelli descritti in precedenza.
Sul fondo, a sinistra c'era la stanza del "prefetto", che era il direttore di quella porzione di paese che stiamo visitando. Agli angoli estremi due tende nascondevano i letti degli "assistenti", religiosi laici, detti "fratelli".
Un'altra stanzetta era adibita alle riunioni dell'azione cattolica, qui molto sentita, quasi obbligatoria.
Continuando la salita delle scale, si tralasciavano al secondo piano dei locali, che non riguardavano l'abitazione del ragazzino.
Bisognava salire al terzo per trovare le aule della scuola.
Erano tre stanze, una per ciascuna delle tre classi previste, appunto terza quarta e quinta.
Aule di quei tempi: lavagne a cavalletto, girevoli, con porta gessi e straccetto per pulirle. Banchi con porta calamaio incorporato e scomparto sotto il piano per tenerci libri e quaderni.
Alle pareti le carte geografiche, ciascuna specifica per l'anno di studio, e altre stampe di fiori, animali piccoli e grandi, immagini dal mondo.
Anche qui c'era il locale dei gabinetti, di cui uno con vaso, ad uso delle suore insegnanti.
Completata a grandi linee la visita della nuova casa, più avanti entreremo nella vita quotidiana del ragazzo e dei suoi compagni.