Della sua famiglia e di quella più prossima, scolasticamente, ne aveva già parlato.
Col tempo, negli anni a seguire, aveva scoperto l'esistenza di altri gruppi di persone che, come Pepè, sopravvivevano alla "fortuna" di una vita sventurata.
Adiacente a quella dei giuseppini, c'era la famiglia detta dei Buoni Figli.
Erano persone che, senza essere pazze, avevano handicap mentali che le rendevano assenti da quanto li circondava.
Il fondatore della cittadella li riteneva i prediletti del Signore, e quindi, almeno in teoria, erano trattati come tali.
Nel tempo, Pepè non aveva avuto sentore di maltrattamenti verso di loro, o di violenze da parte di questi poveri disgraziati verso altri ospiti.
Avevano i loro tic, e non venivano ostacolati, perlomeno non in maniera visibile agli esterni.
Il tempo glielo facevano passare rompendo i gusci a montagne di frutta secca, commissionati da grandi aziende dolciarie: non avevano macchinari speciali, con piccoli mortai spezzavano i gusci di nocciole noci mandorle, gettando i frutti puliti in grandi ceste e i gusci in altre.
Quando Pepè e i compagni riuscivano a entrare nel 'laboratorio', assenti gli addetti, erano manciate di frutta secca che riempivano le tasche, e poi quell'angolino di stomaco tenuto, non volontariamente, vuoto in attesa di qualunque supplemento al vitto quotidiano.
C'era poi la famiglia dei Sordomuti.
In chiesa, soprattutto, ma anche in occasione di recite occasionali nel cinema-teatro, era uno spettacolo guardare le mani e le dita e le espressioni del viso di chi "parlava" con loro.
I dialoghi tra loro, poi, davano l'impressione di una vivacità che, forse, la voce non avrebbe saputo esprimere.
Certe volte sembrava di 'sentirli' gridare nel loro silenzio assoluto.
Particolarmente impressa nella mente gli è rimasta la famiglia degli Invalidi.
Non Diversamente Abili, come vennero anni e anni dopo identificati i portatori di handicap.
Anche questo termine era sconosciuto, allora.
Erano semplicemente invalidi.
Signori invalidi!
Pur essendo ancora ragazzini, dalla loro frequentazione avevano imparato che la mancanza di gambe, di braccia, la cecità erano semplicemente incidenti di percorso, talvolta dovuti alla natura, altre volte provocati da accidenti casuali.
Avevano un laboratorio di legatoria, pieno di macchinari per rilegare, grandi taglierine per la rifilatura dei volumi, colle e inchiostri, risme di carta e cartoni...
Guardarli al lavoro, con le macchine rumorose, con le grida per superare il baccano di queste, era un vero e proprio divertimento.
Di alcuni gli era rimasto impresso anche il nome, oltre a particolari fisici che rendevano affascinante quello che facevano.
C'era Didimo: senza gambe, da subito sopra il ginocchio; stava seduto su un sgabello di legno, e con quello 'camminava' senza dare l'impressione di invidiare le gambe umane degli altri.
Come gli altri, lavorava nella legatoria, ma era più conosciuto come barbiere: barbe e capelli della sua famiglia, e di altre che si affidavano a lui, erano oggetto di cura a livello professionale.
Non c'erano sedie o poltrone girevoli, quindi 'saltellava' intorno ai clienti su queste sue gambe di legno.
Giorgio: cieco totale; Pepè non aveva saputo se lo fosse dalla nascita, o successivamente.
Veramente non aveva neanche cercato di saperlo: era cieco, punto e basta.
Vestiva con una certa eleganza, prediligeva le giacche a doppio petto, raramente era senza cravatta, i capelli imbiancati, leggermente ondulati, sempre in ordine.
Gli abiti, a ben guardare, erano un po' sdrusciti, lisi dall'uso, ma portati con una dignità da gran sartoria.
Con lui Pepè aveva passato ore, ad ascoltare la "lettura" dei suoi libri, punteggiati in braille.
Amedeo: viaggiava in carrozzina, non c'erano ancora quelle a trazione elettrica, con la manopola laterale dava la spinta al mezzo, che aveva una catena come le biciclette.
Con Amedeo, Pepè aveva fatto un incidente, per fortuna senza conseguenze.
Pepè aveva un modo un po' strano di correre: anziché farlo come tutti, viso volto in avanti e occhi aperti, lui chiudeva gli occhi e gettava la testa all'indietro, forse per meglio assaporare l'ebrezza della corsa.
Quello stava facendo, un giorno, quando da lontano era spuntato Amedeo sulla dirittura della sua corsa.
Occhi chiusi, viso verso l'alto, non aveva proprio sentito il grido di Amedeo che gli diceva di spostarsi.
Impatto frontale: Pepè da una parte, Amedeo a terra, con la carrozzina sopra di lui.
Agli accorsi in aiuto di entrambi, questo 'invalido' gridava di vedere se il ragazzo si era fatto male, di non pensare a lui...
Risultato dell'impatto: Pepè ginocchia e gomiti sbucciati, Amedeo una mano sanguinante e carrozzina semi sfasciata.
Questa famiglia Invalidi aveva anche una banda musicale: non poteva seguire le processioni o altre manifestazioni per evidenti motivi di mobilità.
Ma una volta sistemata in postazioni fisse dava spettacoli che nulla avevano da invidiare alle bande musicali itineranti.
Giorgio, il cieco, suonava la cornetta, e il suo Silenzio solitario alla fine dei concerti faceva emozionare ben oltre il pezzo stesso.
La grancassa era affidata a un focomelico: una specie di manina gli spuntava all'altezza di un gomito, mentre l'altro braccio era quasi tronco verso metà avambraccio.
Questi due moncherini venivano fasciati da due larghe cinghie di cuoio, cui erano collegati gli attrezzi per battere la cassa.
E tromboni, trombe, tamburelli, flauti, piatti, triangolo... una banda al completo.
Questa "famiglia" suscitava emozioni, mai sguardi di pietà o commiserazione.
Tutt'al più, nei cosiddetti normali, un senso di inadeguatezza, di capacità limitata da un corpo completo.
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