Alle famiglie maschili, in altra zona, corrispondevano quelle femminili.
Ai giuseppini, maschietti, c'era il pendant delle orfanelle.
Agli invalidi, le invalide; ai sordomuti, le sordomute, e così via.
Oltre a questi reparti di ricovero, in un'altra zona, separata da una strada, c'erano le "infermerie".
Era un modo improprio di definire un vero e proprio ospedale.
Al piano terra c'era tutta una serie di ambulatori, completa in tutte le specializzazioni: da quello dentistico a quello chirurgico, da medicina generale a ginecologia (Pepè non sapeva cosa fosse, ma c'era, e se c'era a qualcosa doveva servire), da ortopedia a pediatria.
C'erano tutti, e pare che fossero seguiti da fior di professionisti.
Erano aperti anche agli esterni; non c'erano tariffe per le visite e per le cure: chi poteva faceva un'offerta libera, chi non poteva ringraziava.
E un "grazie" pagava la visita.
Gli ospiti della cittadella avevano la precedenza nelle visite sugli esterni: facevano parte della 'famiglia', e come famigliari erano trattati.
Ai piani superiori e in complessi distaccati, erano situate le già citate infermerie.
Erano lunghe camerate, con i letti affiancati su due lati, divisi dal comodino e da una sedia.
Al fondo di ciscuna di queste camerate era situato un piccolo altare; a fianco la sala medicazioni, che al mattino presto serviva alla vestizione del sacerdote in vista della messa.
In queste infermerie veniva ricoverato chi necessitava di cure ospedaliere, di medicina o chirurgia; per i malati cronici c'erano altri reparti appositi.
L'assistenza, sia negli ambulatori che nelle infermerie, era affidata alle suore e ai fratelli. Una scuola infermieristica interna ne curava la preparazione.
Tornando alla vita di Pepè, dopo l'inizio della scuola, questa era scandita da tempi prefissati e quasi immutabili nel tempo.
Una parte importante di questi tempi era dedicata, come già detto, alle funzioni religiose; poi la scuola, i periodi di ricreazione nel corso della giornata, che non erano mai abbastanza lunghi (a posteriori, per la verità, non erano brevi), ma spezzavano abbastanza i tempi per le altre occupazioni.
Tra queste, oltre le lezioni di canto (inutili e superflue per lui) e la ginnastica, c'era l'insegnamento "a servire messa".
Si trattava di imparare a fare i chierichetti.
Questo servizio non era destinato alla 'chiesa grande'. Là ci pensavano i fratelli; l'accesso a questo servizio era allora precluso alle donne, quindi anche alle suore. Ma era una disposizione generale della chiesa di quei tempi.
I chierichetti erano destinati al servizio della messa nelle infermerie.
Quelli destinati a quell'ufficio avevano la sveglia alle cinque e mezzo del mattino, per essere presenti nelle varie sedi alle sei, orario di inizio delle messe, più o meno in contemporanea in ciascuna infermeria.
Ci si avviava in gruppo fino alle diverse diramazioni, e nello stesso punto di separazione ci si ritrovava al termine della funzione.
In queste grandi camerate quello che colpiva ogni mattina erano gli odori della notte.
Odori di urine notturne, di medicinali, di chiuso, di respiri affannosi.
Soprattutto nei reparti maschili.
In quelli femminili, già all'alba leggeri profumi coprivano in parte gli odori sgradevoli.
Così, con pochi partecipanti alla preghiera, molti dormienti, alcuni talvolta russanti, la messa era servita.
Al termine, ed era quanto mai piacevole, c'era sempre, ogni giorno, una 'mancetta' al chierichetto: un dolce, caramelle, un frutto, a sorpresa ogni tanto un piccolo giocattolino.
Anche in questo i reparti femminili si distinguevano: era tutto più vario e abbondante.
Dagli uomini, erano le suore che racimolavano qualcosa da dare ai serventi messa.
Dalle donne, erano le stesse ricoverate che mettevano insieme un po' di bendidio: forse prevaleva in loro lo spirito materno, verso chi sapevano bene che questo spirito non lo avevano mai provato.
Ogni tanto, guardando la camerata, o percorrendola per portare la comunione a chi l'aveva richiesta, si notava un letto vuoto, con il materasso piegato in due.
La domanda era sempre la stessa: paziente dimesso, o paziente deceduto?
Una preghierina, spontanea, ci scappava: se dimesso come augurio, se deceduto come addio a uno sconosciuto che aveva preso un'altra strada.
Al luogo di raduno, si scambiavano i doppioni delle mancette ricevute, e poi in chiesa grande per la fine di quella messa, che era sempre più lunga di quella delle infermerie.
Sia perché iniziava più tardi, sia perché le comunioni a decine e decine di suore, religiosi e ricoverati, allungavano i tempi di quella funzione.
Per i chierichetti c'era lo spazio temporale per un sonnellino, turbato di tanto in tanto dalle nocche dell'assistente che, battendo sul banco, invitava alla sveglia.
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