In precedenza, Pepè aveva accennato alle difficoltà incontrate a scuola con la matematica e il disegno.
Col tempo le aveva superate, senza peraltro innamorarsene.
Con il progredire dell'anno scolastico era venuta fuori un'altra materia: il canto.
Questo corso era seguito dal prefetto in persona; c'era un piccolo pianoforte, lui suonava e i ragazzi cantavano.
All'inizio c'era la scala musicale e i solfeggi seguendo questa.
Per tutti, questa scala era in salita e in discesa, a seconda delle indicazioni del solfeggio.
Per Pepè era una scala assolutamente priva di salite o discese.
Era una scala appoggiata in lungo sul pavimento, da percorrere senza bassi o acuti; unico ostacolo potevano essere i pioli, ma con un po' di attenzione ci si poteva camminare senza inciampi.
Insomma, negazione assoluta al canto.
Il prefetto le aveva tentate tutte: lo faceva provare da solo, con ragazzi più intonati, con il coro al completo.
Non c'era stato niente da fare.
La scala l'aveva imparata, e tutt'ora la ricorda bene: do re mi fa sol la si do - do si la sol fa mi re do.
Ma che fosse richiesto un 'la' oppure un 'mi', o qualunque altra nota, con le diverse tonalità, per lui erano note piatte, tutte uguali.
Dopo infiniti tentativi, il prefetto si era rassegnato, e aveva rinunciato a un membro del coro.
Poiché comunque faceva parte del gruppo, non potendo allontanarlo, aveva risolto il problema della sua presenza con il divieto assoluto di emettere suoni, né musicali né parlati.
La sua fiducia in Pepè era tale che, sia nelle prove che nei cori ufficiali, se lo teneva al suo fianco, a portata d'occhi, in modo da bloccare sul nascere eventali fuoriuscite di suoni dalla sua bocca.
Una guardataccia stroncava ogni incidentale tentativo di interferenza nella coralità dei compagni.
Poteva, doveva, muovere le labbra, accompagnando le parole dei canti.
In pratica era il solista silente del gruppo.
In testa c'era lo studio degli inni sacri, e già questi erano un'infinità.
Poi c'erano le canzoni profane.
Il Va pensiero, La canzone del Piave, Inno a Roma, canzonette alpine e locali, nonché quelle patriottiche in voga all'epoca.
E, ovviamente, l'inno nazionale di Mameli.
Pur tacendo le aveva imparate tutte; secondo il suo punto di vista, anzi di udito, in maniera splendida.
Col passare degli anni, di molti anni, gli era rimasto il complesso di questo suo essere 'fuori tono': per cantare a pieni polmoni si dovevano, e si devono, verificare alcune situazioni favorevoli, in cui le stonature sono sopportate, e in alcuni personalissimi casi addirittura ignorate.
In cene private, in casa di amici, il dopo cena, dopo più o meno abbondanti libagioni, quando tutto va bene.
E viaggiando, da solo, in macchina. E' il posto preferito per sfogare la passione musicale repressa da ragazzo.
Alla scuola, qualche spiritoso aveva suggerito gargarismi di lisciass e segatura per tentare di arrotondare un po' la vocalità.
Un po' perché la liscivia gli faceva schifo, un po' perché proprio tonto non era, non aveva preso in considerazione questo esperimento.
Stonato era, e tale è rimasto.
Ma chi volesse leggere il labiale di tutte le canzoni, si accorgerebbe che la musicalità silenziosa è perfetta.
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