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lunedì 25 ottobre 2010

Margherite con le spine

Di solito sono le rose che s’accompagnano alle spine.
Ma di rose, Pepè, nel suo cammino non ne aveva trovate.
Qualche margherita, forse, ma cercandola per bene, non con la classica lanterna, bensì con una buona lente d’ingrandimento.
Le spine, invece, erano state abbondanti; e perfino quelle poche margherite riuscivano ad averle.
Forse la gestione di ottanta-novanta ragazzi richiedeva una buona dose di capacità organizzative, sicuramente disciplinari.
I pochi anni trascorsi dal termine di un conflitto che aveva dilaniato il mondo, e di cui i ragazzi sentivano solo i rimbalzi, attutiti da una forma di pudore spontaneo da chi quegli anni aveva vissuto, avevano lasciato tracce, difficili da cancellare in così poco tempo.
Una di queste tracce era l’ordine a tutti i costi.
La disciplina, ferrea come si usava dire, era uno di questi costi, un retaggio di quel recente passato, ed era applicata con costante attenzione.
In classe, l’essere relegati dietro la lavagna perché sorpresi a copiare o chiacchierare, era punizione quotidiana.
E, di solito, terminava con la fine delle lezioni.
Talvolta, in caso di male risposte, il ‘delitto’ finiva al prefetto.
E da lui non arrivavano solo sgridate; purtroppo erano botte, belle e buone.
Nel suo ufficio aveva una bacchetta quadrata, un centimetro di lato, e la usava sul dorso delle mani, che dovevano essere ben stese, per accogliere meglio la battuta.
Il ritiro, automatico nel tentativo di salvataggio, comportava il raddoppio della punizione.
Chi usciva da quelle ‘lezioni’, lo faceva con gli occhi gonfi di pianto e le mani paonazze, talvolta sprizzanti sangue.
In genere, però, le punizioni consistevano in qualche schiaffone o un calcio nel sedere.
Farsi pescare a tavola a parlare, voleva dire rischiare di finire con la faccia nel piatto, per uno schiaffo improvviso e inatteso.
Durante le ricreazioni, i litigi erano frequenti, o per un intervento pesante giocando al pallone o per un’offesa verbale non accettata.
In quei casi interveniva l’assistente, che prima divideva i litiganti a suon di ceffoni, poi cercava di sapere ‘chi aveva cominciato’: non che avesse grande importanza, poiché alla fine dava un supplemento a entrambi, destinandoli agli estremi del cortile per evitare recidive.
Questo tipo di castigo lasciava un po’ il tempo che trovava, poiché calci nelle gambe, gomitate, qualche pugno nelle fasi di gioco, rendevano quasi coriacei alle ulteriori botte.
Gli assistenti, di solito, erano due: un ‘fratello’ laico e un chierico, che studiava nel vicino seminario.
Muniti entrambi di un fischietto, per le chiamate collegiali.
Questo fischietto era legato a una specie di catenella, forse per limitare i rischi di caduta a terra o di perdita.
Il chierico aveva una sua etica: mai mettere le mani addosso a un ragazzo.
Quindi, nei suoi interventi, affidava alla catenella il compito di risolvere le situazioni.
La faceva roteare facendola andare a battere, se possibile sulle mani, ma in casi estremi anche sul collo o sulle gambe, che i calzoni corti lasciavano scoperte.
Pepè aveva parlato in precedenza dei ‘bagnaletto’, e forse aveva dato l’impressione, volutamente, che il fatto finisse lì.
Non era così: chi nella notte, per disattenzione o per debolezza, aveva bagnato il letto, sapeva già quale era la sua punizione.
Alle ricreazioni, dopo pranzo e dopo cena, il ‘colpevole’ si doveva presentare con una specie di fazzoletto in testa.
Quel fazzoletto erano le mutande, bagnate con il letto la notte precedente.
Al pomeriggio erano già asciutte, o quasi; in teoria avrebbe dovuto essere una punizione psicologica, per insegnare al colpevole che bagnare il letto non era cosa buona.
Ma anche questa, alla fine, diventava una punizione simbolica, perché il punito entrava tranquillamente nei giochi con i compagni, e la sua ‘bandana’ non era oggetto di repulsione, tanto meno di disprezzo.
La sera, inoltre, quando tutti erano andati a letto, doveva aspettare ai piedi del letto il segnale per poter andare a dormire.
Che talvolta arrivava molto tardi, o perché il prefetto rientrava a tarda notte o perché se n’era dimenticato.
Se lo scopo era di umiliare con la speranza di ‘redimere’, questo falliva regolarmente, sia dal lato psicologico che da quello pratico.
Chi aveva questa debolezza non guariva con questo tipo di cura.
C’erano poi le punizioni prettamente psicologiche.
Ogni tanto c’era la proiezione di diapositive, solitamente a carattere religioso, e il punito doveva stare con la schiena verso lo schermo, ascoltando le spiegazioni dei fotogrammi senza poterli vedere.
Ma queste erano talmente ripetitive, che il non vederle lasciava assolutamente indifferenti.
Diverso il discorso per i film, sempre con la schiena rivolta allo schermo: se erano racconti religiosi, la perdita era relativa. Talvolta, però erano di avventura, e allora un po’ di dispiacere ci scappava.
Insomma, non era inferno, tanto meno paradiso.
Neppure limbo.
Era… così.

giovedì 14 ottobre 2010

Feste comandate

Le domeniche e le feste comandate, nei pomeriggi, dopo un’adeguata istruzione, il compito di Pepè era fare il telefonista.
All’entrata della cittadella c’era un centralino, presidiato da una suora, che verificava le entrate dei visitatori, e provvedeva a chiamare il numero della famiglia richiesto per invitare gli interessati in parlatorio.
Che era sistemato in una grande stanza, munita di sedie e tavoli, sufficienti per un buon numero di visitatori.
Questa entrata, questo centralino e questo parlatorio erano destinati ai reparti maschili.
Per quelli femminili, tutto l’apparato era altrove.
L’apparecchio telefonico, nella famiglia di Pepè, era piazzato in un angolo del dormitorio.
Nero, attaccato al muro, naturalmente a quella che si dice ‘altezza d’uomo’.
Pepè, oltre a non essere ancora un uomo, anche ad altezza lasciava a desiderare.
Sotto l’apparecchio, un tavolinetto e una sedia.
Pepè era stato preferito ad altri per quel compito, perché c’era la fondata certezza che nessuno lo avrebbe mai cercato.
Era diventato un posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ad ogni squillo doveva alzarsi per rispondere, perché da seduto non arrivava allo stacco della cornetta.
In seguito aveva attaccato alla forcella uno spago, al cui termine aveva legato un piccolo peso, una pietra; con la cornetta appoggiata sul tavolino, era sufficiente sollevare il peso, e rispondere direttamente.
Insieme a lui c’era un compagno, con il compito di messaggero: ad ogni chiamata andava a scuola o nel cortile per avvisare della visita.
Il tempo lo passavano leggendo o facendo le corse lungo i letti. Il dormitorio era abbastanza lungo da consentire belle galoppate.


Nelle feste ‘grandi’ le processioni erano d’obbligo.
Se capitavano nel periodo invernale, non era necessario vestirsi a festa: un tabarro nero copriva ampiamente i vestiti di tutti i giorni.
Ad alcuni arrivavano a mezza gamba; quello di Pepè copriva quasi fino alle caviglie.
Invece degli zoccoli si mettevano le scarpe e la trasformazione era completata.
Sempre d’inverno, con quelle mantelle si divertivano a correre nel cortile, facendole aprire a vela, come i cavalieri o i vampiri visti in qualche film.
Oppure facendo lunghe scivolate su strisce di cortile, opportunamente allagate la sera, per trovarle al mattino completamente ghiacciate.
Quando le processioni cadevano in periodi più caldi, avevano una giachetta blu, con il bavero e il colletto coperti da una camicia bianca, aperta sul collo.
Veramente non era una camicia completa: si trattava di una specie di pettorina, formata da un largo colletto collegato a un rettangolo, tenuto unito da un paio di bottoncini.
Sopra la giacchetta, dava l’impressione di una candida camicia, che offriva una parvenza di eleganza.
Quando le processioni si svolgevano all’esterno della cittadella, pareva di sentire i commenti degli spettatori ai lati della strada: commenti che, dietro l’ammirazione, facevano intuire il concetto che perfino degli orfani, vestiti a festa diventavano personcine normali.

Il giovedì pomeriggio, tempo permettendo, era dedicato a una passeggiata all’esterno.
I percorsi, nel lungo periodo di soggiorno, erano ormai diventati abituali.
Se, uscendo, si andava verso sinistra, il fiume era il traguardo della gita.
Se si andava verso destra, cammina cammina, si arrivava a un cumulo di macerie, resti dei bombardamenti della guerra conclusa da pochi anni. 
E su quei resti giocavano; per fortuna senza mai avere incocciato residuati bellici, che avrebbero potuto trasformare la gita in una tragedia.
Di fronte, sicuramente era in programma la visita a qualche basilica, o comunque un posto religioso, di cui per l’ennesima volta avrebbero ascoltato la storia e i miracoli.
Così tra messe, funzioni religiose di ogni tipo, preghiere, scuola, ricreazioni, qualche film, quegli anni stavano passando, tutti uguali, quasi monotoni.

Una monotonia interrotta due volte dalla morte.

Si chiamava Franco, il cognome non lo ricordava; un giorno era stato ricoverato all’ospedale, e per un lungo periodo non lo avevano più visto, tanto da pensare che avesse trovato una famiglia vera che lo avesse adottato.
Poi era ricomparso, era tornato a scuola, in famiglia: aveva un grande fazzoletto legato intorno alla testa, a coprire i capelli.
Che non c’erano più.
Si era fermato poco tempo, poi era tornato in ospedale e da lì non era più rientrato.

Parecchio dopo era toccato a Luigi, il cognome lo ricordava bene, ma il citarlo non aggiungerebbe nulla al suo ricordo: aveva delle piaghe ai piedi, ed era in cura per queste.
Sembrava stesse migliorando.
Invece dopo l’ennesimo ricovero, una mattina aveva chiuso il libro della sua vita e se n’era andato, anche lui.

giovedì 7 ottobre 2010

Medici e pazienti

Da ragazzi, si sa, i malanni, di solito, sono per natura quasi inevitabili.
Pepè non ricordava di avere “fatto” quelli più noti: orecchioni, scarlattina, varicella, morbillo, e altri eventualmente dimenticati.
Il fatto di ritenere di non essere passato sotto quelle forche caudine, era dovuto al preciso ricordo dei suoi contatti col mondo della medicina.
Già i camici, allora bianchi, dei barbieri lo mettevano in agitazione, figuriamoci quelli medici…
Il primo incontro con questi lo aveva avuto in occasione della vaccinazione anti-vaiolo.
A lui e ai compagni avevano scoperto il braccio sinistro e, dopo averlo disinfettato, avevano grattato con una specie di pennino l’esterno del muscolo.
Sulla ferita così provocata, probabilmente, avevano inserito il siero.
Il ‘probabilmente’ era dovuto al fatto che con gli occhi lacrimanti e volti verso la destra, per evitare di vedere lo scempio in atto, non poteva dire con certezza che qualcosa fosse stato immesso.
Garzina, cerotto e, passato il dolore immediato, giorni di prurito sulla ferita, col divieto assoluto di grattare, pena la ripetizione della vaccinazione.
Caduta la crosta formatasi, e asciugata la ferita, era rimasta la cicatrice.
Indelebile, come quella provocata anni prima dal braciere.


L’altro intervento medico era stato l’asportazione delle tonsille.
Non ricorda cosa avesse provocato la decisione, un valido motivo ci sarà stato, ma non ne era a conoscenza.
Ricorda invece perfettamente l’andamento dell’operazione.
Il giorno del ‘sacrificio’, in sala operatoria il chirurgo aveva preso atto che Pepè era troppo minuscolo per riuscire a fermarlo sulla poltrona.
Quindi il fratello laico, Lorenzo, si era seduto prendendolo in braccio, incrociandogli le braccia in modo da evitare eventuali, benché improbabili, gesti inconsulti.
Con un apribocca, una mascherina, una spruzzatina di anestetico gassoso, era andato nel mondo dei sogni.
Senza averlo sentito, essendo sicuramente stato addormentato, ancora per anni gli era frullato per la testa un sinistro “clic- clac” nel ricordo di quell’operazione.
Per il primo giorno dopo il taglio, solo ghiaccio e gelati.
Non fosse stato per il dolore del passaggio nella gola, sarebbe stata una festa bellissima.
Nei giorni successivi, le zuppe di latte e biscotti sarebbero state un’altra grande festa, non fosse che ne aveva mangiate fino alla nausea, fino ad averle in uggia per molti degli anni successivi.


C’era stata un’epidemia di difterite.
Tamponi ficcati in gola a tutti, per cercare i positivi all’esame.
Pepè e altri cinque erano risultati “portatori sani”; per loro si era reso necessario il ricovero in quarantena.
In una infermeria era stato trovato un locale, con un piccolo bagno, e vi erano stati sistemati sei lettini.
Divieto assoluto di uscita ed entrata nella stanza.
Isolamento assoluto.
Iniezione ogni giorno, tampone intermedio di controllo, e tampone finale per fine malattia.
Dalla ‘famiglia’ avevano mandato libri e quaderni, per non restare troppo indietro con le lezioni.
Qualche rivista di fumetti e le “parole incrociate”.
Queste ultime un totale fallimento: aveva ritenuto sufficiente riempire le caselle con parole sensate, solo che le verticali non coincidevano mai con le orizzontali.
Feroci battaglie con i cuscini e piccole liti (per esempio, quando qualcuno stava troppo in bagno, e i ‘bisogni’ diventavano impellenti), aiutavano il passar del tempo.
Per un po’, avevano scoperto un nuovo passatempo, che si preannunciava divertente, con qualche rischio.
Divisa da una grande porta a vetri, sempre chiusa, c’era l’infermeria delle ragazzine; anche loro in isolamento per acciacchi infettivi.
Dopo i primi giorni di segregazione totale, le maglie della sorveglianza, soprattutto la sera, si allentavano un pochino. Le infermiere andavano a cenare o a pregare altrove, e questo consentiva brevi scorribande fuori dalla gabbia.
Scoperta la presenza delle femminucce al di là della porta a vetri, la curiosità di vederle, magari conoscerle, era stata troppo forte.
Ostacolata dal fatto che loro non ne volevano proprio sapere.
Appena vedevano gli incursori avvicinarsi, scappavano gridando l’allarme alla loro infermiera, che arrivava di corsa, imbufalita.
I pionieri erano più veloci, per cui al suo arrivo la cerbera, non trovando nessuno, probabilmente dava delle ‘visionarie’ alle sue pulcine e tornava alle sue faccende.
Le quali pulcine, pur malate, avevano una malignità precoce ìnsita, poiché avevano pianificato un contrattacco degno di migliore causa.
Si mettevano bene in vista, tre o quattro, invitanti all’approccio, consistente più che altro in boccacce reciproche.
Intenti a questo modo di ‘tubare’, ai fantaccini sfuggiva la sparizione, silenziosa, di una delle paperelle, che tornava accompagnata dall’infermiera.
Tuoni, fulmini, saette, sgridate, minacce di segnalazione del ‘delitto’ al prefetto… un finimondo, solo per quattro boccacce.
Che poi, i sei carcerati avevano in comune, nei confronti delle femminucce, la certezza che solo i colori dividessero i maschi dalle femmine: celeste i maschietti, rosa le femminucce.
La scoperta dell’altra, deliziosa, metà del cielo, avrebbe avuto inizio nel tempo, chi più prima chi più dopo, non più in branco, ma con percezioni personali e singole.
A parte la segregazione e le iniezioni, quel periodo aveva evitato ai sei ‘carcerati’ sia le levatacce all’alba che le messe ogni mattina.
Nell’insieme, non un cattivo ricordo…


Un altro indimenticabile contatto con i dottori era avvenuto per una polmonite.
Una domenica sera erano andati al salone cinematografico, per la visione di un film.
Era inverno, faceva un freddo davvero invernale; il salone non aveva riscaldamento. C’era una grande stufa, il cui tubo di scarico dei fumi attraversava tutto il salone, dando una parvenza di calore, più intuitiva che reale.
I ragazzi erano tutti ben coperti da maglioni e cappotti, ma il freddolino, stando fermi, si faceva ugualmente sentire.
A Pepè era venuta la brillante idea di andarsi a mettere nei pressi della stufa.
Lì c’era un gran bel calduccio; tanto calduccio da invogliarlo a togliere il cappotto.
Niente di male, sennonché alla fine del primo tempo, per rinfrescarsi un po’ dal troppo caldo, non avesse avuto l’altrettanto brillante idea di uscire a prendere una boccata d’aria fresca.
Anzi, freddissima.
Ovviamente senza cappotto.
Nella nottata, forti dolori a ogni respiro e la febbre altissima, avevano fatto intervenire i medici dell’ospedale.
Era venuto il primario, accompagnato dal suo vice.
Erano piuttosto buffi: il primario alto e grasso, il suo vice alto e segaligno.
Facevano subito pensare ai filmetti di Gianni e Pinotto…
Per i ragazzi, a parte la camicia ed eventuale maglione, non erano previste magliette o canottiere.
In occasione di visite mediche, forse per evitare rimbrotti da parte dei dottori, veniva fatta indossare una maglietta “di sotto”.
Un fazzoletto immacolato sulla schiena, per evitare il freddo dello stetoscopio, e diagnosi immediata: polmonite.
Ricovero, iniezioni a volontà, compresse…
Anche qui il vantaggio di saltare le messe e poter dormire di più la mattina.
E niente libri e quaderni.
Gli è rimasto in mente un medicinale, forse un ricostituente, un cucchiaio al giorno.
L’odore era di anice, uno dei pochi liquori che nel corso dell’esistenza non ha mai più amato, neanche travestito da Pernod.