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sabato 31 luglio 2010

Terza elementare

Il rientro dalla colonia era stato come un 'fine ricreazione'.
Il nuovo anno scolastico, il primo della serie allora obbligatoria, sarebbe stato come un originale, cui sarebbero seguite le copie quasi identiche degli anni a seguire.
Intanto la conoscenza delle maestre.
Erano tre suore, una per ogni classe.
In terza c'era suor Beatrice.
Una suora 'sui generis', come più avanti Pepè avrebbe imparato a definire qualcuno o qualcosa fuori dall'ordinario.
Era fuori dall'ordinario delle suore conosciute fino ad allora.
Era piuttosto giovane, un viso con le gote che sembravano due mele, quelle rosse e gialle; gli occhi, anche nei momenti di severità, ridevano sempre.
Era sempre allegra, sprizzava e trasmetteva questa sua allegria.
Prima di essere richiamata alla casa madre, era stata in un paese lontano, in cui, vista la sua spigliatezza, sicuramente aveva lasciato un buon ricordo e rimpianti.
Ogni tanto faceva vedere ai suoi ragazzi delle fotografie; una, in particolare, era rimasta impressa nella mente di Pepè: suor Beatrice alla guida di un motorino, tonaca al vento, sorridente di quel tipo di sorriso che indica felicità, piacere di vivere.
La quarta era di suor Crocifissa.
Delle tre insegnanti era la più anziana.
Aveva il pallino dei serpenti. In soffitta ne aveva una raccolta dei più svariati.
Erano dentro dei contenitori di vetro, immersi, forse, nell'alcol.
Ogni tanto portava un boccaccio in aula e se lo metteva davanti sul piano della cattedra.
Dopo le prime paure, quelle che impedivano perfino di toccare il vetro, si erano abituati a quelle strane presenze; piano piano, mandando qualche coraggioso in avanscoperta, erano arrivati all'osservazione ravvicinata.
Per 'ravvicinata' era inteso un buon metro di distanza; la prudenza aveva comunque il sopravvento.
La quinta era di suor Maria Pia.
Piccoletta, rubiconda e con modi da signora.
Dai passaparola con i compagni, Pepè aveva saputo che si trattava di una nobildonna, che con la vocazione aveva lasciato il 'mondo' per mettersi al servizio dei poveri.
Forse era una leggenda, tramandata di anno in anno nel passaggio delle consegne a chi seguiva.
A far credere che non fosse solo leggenda, questa suora aveva un dente in oro giallo e la montatura degli occhiali pure in oro.
Almeno, il colore era oro.
Dell'insegnamento vero e proprio, Pepè non ricordava molto; anzi proprio nulla.
Era stato sempre promosso, ma dovesse dire con quali voti, non lo saprebbe.
Ricordava, però, che le sue 'bestie nere' erano la matematica e il disegno.
Per la matematica era in ottima compagnia; per il disegno superava tutti.
In negativo.
Non era tanto il disegnare che appariva difficile, quanto il salvare i fogli da ditate, cancellature su cancellature, che alla fine riducevano i fogli a carta poco meno che straccia.
Fuori dall'aula, aveva fatto conoscenza con l'educazione fisica.
La seguiva il prefetto in persona.
Consisteva nell'arrampicata su delle pertiche, infisse nel pavimento e fissate in alto in anelli appositi; poi gli assi d'equilibrio e ginnastica.
Pepè non aveva mai avuto a che fare con questa materia; visti i suoi precedenti era improbabile che potesse conoscerla.
Una delle voci della ginnastica che gli aveva creato problemi era stato il coordinamento nella marcia; intanto la cadenza delle braccia in corrispondenza con i movimenti delle gambe, poi il rispetto dei comandi di 'passo' e 'cadenza'.
Agli inizi disastrosi aveva fatto seguito l'affidamento a un ragazzo più grande, per una specie di svezzamento sulla materia.
Durante la ginnastica indossavano tutti delle magliette bianche, che sul petto e sulla schiena avevano una sigla, allora incomprensibile: ONB.
Non avevano neanche tentato di decifrarla, anche perché non rientrava nei loro interessi.
Molti anni dopo, Pepè avrebbe scoperto che, per esteso, quella sigla diceva: Opera Nazionale Balilla.
La guerra, di cui aveva sentito vagamente parlare, era finita da qualche anno; quelle magliette dovevano essere avanzi di quel tempo, ma sarebbe stato un peccato gettarle.

giovedì 22 luglio 2010

Tempo di transizione

Presa un po' per volta conoscenza dell'edificio, Pepè si era dovuto adeguare ai tempi che scandivano ogni giornata, tutte le giornate.
Della messa alla mattina ne aveva già parlato, della colazione pure.
Pur essendo finita, altrove, la scuola, qui le lezioni continuavano; con orari ridotti e con argomenti a caso, non necessariamente legati alle materie di studio.
Era più un assaggio di ciò che ciascuno sapeva; valeva soprattutto per i nuovi arrivati, dei quali non si poteva sapere il grado di preparazione per l'inizio del prossimo anno scolastico.
Dove si notava carenza, si cercava di aggiornare, o ripassando o immettendo nuove conoscenze.
A scuola andavano al mattino, per circa tre ore, e al pomeriggio per un altro paio.
Al centro della giornata c'era il pranzo.
Piatti di metallo, come le scodelle del mattino.
Del pasto in sé non aveva ricordi speciali; rammentava però che la pastasciutta o il riso, quando c'erano, facevano da contorno o a un pezzo di carne o a una fetta di formaggio.
Si pranzava, e cenava, più o meno in silenzio. Se l'assistente era distante, qualche parola ci scappava.
Ai ragazzi fisicamente labili, gli stessi del latte al mattino, prima del pasto veniva dato un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo; chi era seduto a fianco di questi "beneficati" doveva sorbirsi il fetore di quest'olio, che i diretti interessati cercavano di diluire nel gusto, talvolta mescolandoli alla minestra.
Ottenevano solo il prolungamento di quel gusto e di quel fetore.
Per agevolare il silenzio, in un lato del refettorio c'era un leggìo, rialzato per meglio diffondere la voce di chi, con turni settimanali, leggeva un libro.
La lettura aveva inizio al "seduti silenzio", e terminava con il cenno dell'assistente per la fine del capitolo, comunque del pasto.
Nel tempo, parecchi volumi erano passati da quel refettorio, ma uno era stato particolarmente ripetitivo: "Senza famiglia" di Ettore Malot.
Forse per meglio restare nel tema dell'orfanotrofio.
In agosto era previsto un periodo in colonia, al mare.
Erano quattro settimane abbastanza spensierate, tra bagni, giochi nella sabbia (che ricordava bollente come mai più l'avrebbe trovata nel suo futuro), giochi nel grande cortile interno, che fiancheggiava una strada statale.
Di quel primo assaggio della colonia, gli era rimasto impresso l'episodio del costume da bagno.
Pepè, come detto, era piuttosto mingherlino, e l'unico costume che gli andasse bene era un piccolo costume intero, giallo.
Aveva un piccolo difetto: bagnato nell'acqua di mare diventava trasparente, per cui le sue minuscole parti intime erano esposte agli sguardi, e relative prese in giro dei compagni.
Ovviamente non era durato più di tanto; non sapeva se comprato appositamente o comunque trovato, anche a lui era stato assegnato un pantaloncino adeguato.
Sempre salva la messa del mattino, ma in una cappelletta più intima, a colazione il latte era per tutti. I pasti erano più variati, perfino più colorati. Anche i panini avevano l'odore del pane appena sfornato.
La preparazione al bagno in mare aveva un suo cerimoniale.
C'era una casotta su due piani; il primo, leggermente rialzato dal livello della spiaggia, era destinato a tre file di cabine, il cui uso era riservato alle suore (che al mattino presto, prima dei ragazzi, andavano a fare le sabbiature), agli assistenti e ai sacerdoti presenti in colonia.
In un angolo c'era una grande vasca in cemento, in alto una doccia.
Sopra questo piano c'era uno stanzone vuoto, adibito alla vestizione dei costumi prima della scesa in spiaggia, e al cambio al rientro dal mare.
I ragazzi si mettevano lungo i muri di perimetro, faccia al muro, si sfilavano il calzone e mettevano il costume; stessa operazione all'inverso al rientro dal bagno.
Alle pareti una fila di attaccapanni, sovente ignorati per la fretta di correre in acqua.
Al rientro, i costumi bagnati di acqua salmastra andavano risciacquati nella vasca su detta e stesi sulle rocce circostanti la spiaggia.
Riuscire a farsi anche la doccia era un'impresa, nella calca di ragazzi con la premura di andare in spiaggia.
Inoltre i "grandi" avevano la precedenza.
Uno dei passatempi preferiti, consisteva nel mettersi proni lungo il grande cancello metallico, che lasciava un po' di spazio alla base, per vedere le macchine che passavano sulla statale: si leggevano le lettere delle targhe e si cercava di indovinare la provincia di provenienza.
Alla sera, dopo la cena, un sentiero portava a una località detta "la spianata"; non ha mai saputo il perché di quella definizione, visto che si trattava di una vallata, in fondo alla quale c'era il tracciato di quello che un tempo era stato un fiumicciattolo.
Che forse tornava ad esserlo con le piogge; ma piogge negli agosti di quel tempo non ne scendevano.
Questa spianata era piena di alberi, erba alta, tanti pini, e la raccolta dei pinoli andava per la maggiore. Poi giocavano, sulla falsariga dei ragazzi della via Pal, una delle letture lasciate in città.
Con l'imbrunire avveniva il rientro, seguito dalla buonanotte.
In due camerate, più ridotte di quelle conosciute, comunque caldissime; e abitate, oltre che dai ragazzi, anche da una miriade di zanzare.
Un altro dei ricordi di Pepè era la carenza di acqua da bere.
Pur essendo allenato da quella del suo paese, la mancanza di acqua in un paese di mare, caldissimo, si faceva sentire di più.
C'era un rubinetto nel cortile, mezzo arrugginito, forse per il poco uso durante l'anno, che ogni tanto pigolava un po' di acqua. Veniva subito preso d'assalto da un nugolo di assetati.
I più fortunati, che guarda caso erano anche i più robusti, riuscivano a dare qualche sorso.
Per gli altri non restava che attaccarsi letteralmente al rubinetto, succhiando le ultime gocce rimaste all'interno della conduttura.
Fine della colonia.
Rientro in città.